Questa canzone non è adatta alle recensioni.
«Attraverso il Mississippi sulla US49, in direzione est. A Clarksdale, la US49 interseca la Highway 61 e questo è il crocevia della leggenda del blues. Robert Johnson avrebbe venduto la sua anima al diavolo. Pablo Picasso non ha mai venduto la sua anima al diavolo, ma a un ragazzo di colore del Delta. Immagino sia questa la spiegazione. A ogni modo, in un angolo c’è una lavanderia a gettoni, il Devil May Care Quickie-Mat. Nella finestra c’è un’insegna: “Lay It Down e Suds It Up!” Dall’altra parte della strada c’è un Popeyes Fried Chicken. Vado nella corsia drive-thru e mi fermo al tabellone dei menu. Una voce dall’altoparlante dice: “Come-come-come posso servirti?”. Ordino un chicken meal in 3 pezzi con frittelle di farina di mais e uno Sprite. “Come-come-come vuole il pollo?”. “Extra croccante”, dico, e procedo alla finestra di ritiro. Howlin’ Wolf si sporge con una borsa ben piegata che gli fa impallidire il pugno. Andando via ricordo la fetta di torta di noci pecan che mi sono dimenticato di ordinare. Parcheggio ed entro. Robert Zimmerman e Alan Lomax aspettano dietro il bancone. Muddy Waters, con indosso il distintivo del manager, sta servendo i tavoli. Una canzone sta suonando nel jukebox…».
Ecco il leader della band David Thomas che dà la sua interpretazione unica del nuovo brano dei Pere Ubu offerto in pasto alle masse, sempre memori del loro estro magistrale che fin dalla lontana metà degli anni Settanta ha insegnato cosa volesse dire fare – veramente – art rock. Definizione, questa, che a partire dalla band di Cleveland si è poi estesa al catalogo di tutto quel rock che non aveva confini stabiliti. Insomma, siamo ancora una volta a metà tra la filastrocca demenziale e l’avanguardia più fuori dagli schemi!
Ecco dunque Crocodile Smile: il sempre furbesco modo di porsi – di contrappunto alle sue lacrime – di un coccodrillo che ha ormai una certa età. Una canzone che «non è fatta per i visual media», come mostrato (paradossalmente) nel video. Chiudere gli occhi e lasciarsi andare alla libera e fanciullesca immaginazione. Si vedrà forse il re che è nudo e si prende lui gioco del giullare, come in una delle migliori fiabe futuriste. Diciamo post-punk.
Il diciannovesimo album dei Pere Ubu, Trouble on Big Beat Street, è appena uscito. L’avant-garage suona ormai vintage, certo, ma forse è e continua a essere proprio lì il suo bello: mescolare garage rock e surf degli anni ‘50 e ‘60 nello specchio distorto di una funhouse, enfatizzando l’angoscia, la solitudine e la paranoia. Lunga vita al Re Ubu, capace, come il coccodrillo, di mutare una pelle secolare e ancora far finta di ridere.
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