Presenti e coerenti con se stessi: mica vecchi ricordi in vacanza nell’oceano di nostalgia avvizzita che è diventato il rock.
Se non conoscete la storia tra Lars Ulrich e i Winger significa che non conoscete i Winger, e la cosa è positiva per un paio di motivi. Innanzitutto potrete scoprirli ora e goderveli come un gusto del gelato che vi mancava e che potrebbe diventare tra i vostri preferiti, e poi non siete mentalmente condizionati dalle vicissitudini che hanno ingiustamente penalizzato una delle band cosiddette (a torto) hair metal, tra le più eleganti e ispirate che siano mai venute fuori durante gli anni ‘80 dello scorso secolo.
I Winger di oggi non rispolverano i gloriosi e imbalsamati anni di Madalaine, titolo proustiano della loro prima hit che potrebbe rimandare al dilagante marciare all’indietro di questi ultimi anni ammorbati dal COVID e dal virus della nostalgia. Il percorso di questa band è coerente: non rinnega i sapori hard’n’heavy classici. D’altronde, non l’ha mai fatto. Allo stesso tempo però nutre la stilosità delle composizioni di eleganti arrangiamenti da persone grandi che di rock ne hanno macinato tanto, e che soprattutto sanno padroneggiare cambi tonali inaspettati senza mandare in convulsioni l’uditorio, come accade al terzo minuto e trentotto secondi di It All Comes Back Around, con quel raggio di luce in MI cantino che squarcia l’incedere brumoso del brano e lo fa esplodere in mille frammenti di sole.
Il pezzo nasce con un piano/voce leggero e poi ingrana in un fraseggio ormonale maestoso a cui Kip Winger appende i panni sporchi della propria risalita, aggrappandosi alle mani unghiute e sozze dei propri stessi demoni. Questa è musica che mantiene la capacità di far sperare e di lottare. Contro i musei, contro la melanconia: ecco la soluzione!