Giovani tirolande in borchie e burro cacao continuano a pestare sodo.
Questo è l’heavy metal secondo le svizzere Burning Witches, cinque squinzie per cinque album in sette anni, senza grandi idee ma con una notevole passione per i Judas Priest di Painkiller, Ronnie Dio e i sempiterni Maiden (ta-tattà, Maiden, ta-tattà). Non ci vuole molto per cucinare un buon assalto frontale al grugno del mondo: basta prendere un bel riffone, ricamarci intorno una tela di fischioni e rantoli di chitarra ipersaturizzata, far partire l’elicottero della doppia cassa e urlarci sopra qualcosa che è una via di mezzo tra un testo biblico e un manuale di auto-affermazione.
Quote rosa per un massacro? Siamo davanti a una forma di aggressività sonora tipicamente femminile? No, questo è improbabile, ma considerando che non esisterebbe un brano come Unleash the Beast senza il vecchio Robert John Arthur, detto Rob – e tenendo conto che costui l’ha ammesso, di essere gay, seppur dopo molti anni di metallurgia altissima, e di aver tratto ispirazione dai più sordidi negozi alla Cruising di Soho per vestire i guerrieri del metallo e dettarne il passo attitudinale –, probabilmente le Burning Witches non hanno bisogno di cambiare una virgola alla formula classica del metal britannico halfordiano per esprimere la propria vena erotico-mestruale, con tutto il rispetto per i Tampax e l’insostenibile ciclo gravidazionale.
Scatenare la bestia è sempre stato uno dei contributi che il genere dell’incandescente pesantezza ha tentato di suggerire al mondo. Le Burning Witches ribadiscono il concetto scommettendo su una melodia power seducente e aggredendo il pubblico con un video che sa di deodorante Nivea per ascelle seviziate con lamette infuocate e scarpe puzzolenti per abuso affettivo. Sono quasi cinque minuti ma sembrano tre scarsi.