La band di Ronnie Dio torna dal regno dei morti e crea musica piuttosto vispa.
I Last in Line sono i Dio senza Ronnie (lui è tornato nel regno dei cieli in groppa a un arcobaleno, dopo una scorribanda nel metal durata quasi quarant’anni). Il regno del metal però non riesce ad accettarne la partenza. Il mercato di Satana prende atto della disincarnazione ma punta sulle moderne tecniche tridimensionali per offrire al mondo nostalgico del rock, ancora una volta, l’iconico frontman sui palchi veri, in un tentativo di resurrezione che non è stato utilizzato nemmeno per colui che – tra li mortacci – in genere non viene mai lasciato in santa pace: Freddy “incidine un’altra” Mercury).
Così come l’ologramma di Dio è una realtà “tangibile”, anche i Last in Line – suoi comprimari storici – sono veri, autentici e, da circa dieci anni e tre dischi ufficiali, ancora forzuti e calciuti. Alla faccia di chi li voleva come una scorreggia sentimentale della durata di un tour commemorativo: Vivian Campbell, Vinny Appice, Jimmy Bain (fino a un certo punto del percorso, ora sostituito dall’ozzyano Phil Soussan) e il veterano del rimpiazzo deluxe Andrew Freeman continuano a produrre musica robusta, ben scritta e senza sbavature retoriche.
Do the Work ne è un esempio deciso: quattro quarti, incedere pettoruto, scapoccio facile e melodie coinvolgenti. Inutile immaginare Ronnie alla voce, dato che il discorso musicale dei Last in Line ha ormai guadagnato una certa indipendenza dalle origini anni ‘80 di Holy Diver. Che è meglio.
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