Punitivi, paranoici, letali.
In concomitanza con il glorioso concerto celebrativo alla Royal Albert Hall (dove i nostri hanno risuonato per intero i primi due album) i Killing Joke pubblicano un nuovo singolo, tirato fuori dal cilindro del pagliaccio folle, che – nuovamente – sbaraglia i cloni wannabe che infestano la scena.
Che poi dire “scena” è riduttivo: di che genere stiamo parlando? Se c’è una gara per le band trasversali, di sicuro i nostri stanno nei primi posti. A idolatrarli emuli goth, metal, industrial, punk… verrebbe da dire alternative, ma quando il mainstream mostra le crepe, qual è davvero l’altra scelta?
Elucubrazioni mentali da due soldi, invero, che vengono subito messe a tacere da un testo al vetriolo che andrebbe letto nelle scuole per aprirne un dibattito con le classi: come siamo arrivati qui? Come ce lo siamo fatti fare? Cosa è andato storto dentro di noi? C’è possibilità di un riscatto o siamo al tramonto dell’essere umano per come lo conoscevamo?
A sostenere le invettive di Jaz Coleman, un brano diretto e schietto che alle orecchie più fini ricorderà i Voivod del periodo Angel Rat / The Outer Limits, a loro volta influenzati dai Joke stessi, quindi in un certo senso è un cerchio che si chiude. Difficile chiedere altro ai londinesi, una band che (escluso il periodo discutibile attorno a Outside the Gate – che era però in fondo un album del frontman solista sotto mentite spoglie) ha regalato alla musica una serie di album e brani che vanno dallo stellare all’eccellenza. Perché quando esce un loro pezzo e alle orecchie sembra “buono”, bisogna ricordare che se fosse di qualcun altro si griderebbe al miracolo. Lunga vita a Youth, Geordie, Jaz e Paul.
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