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Emma Ruth Rundle: In My Afterlife
Ancora io, sì. E ancora in bianco e nero, sì.

I motori dell’inferno continuano a rombare, piano.

Si, lo sappiamo: ne abbiamo già parlato a proposito di Return. Ma l’ultimo disco della Rundle ci ha proprio fatti prendere bene (nonostante – o forse appunto per – il suo fascino fosco e malinconico), anche e soprattutto alla fine di un tour che l’ha vista unica protagonista, in un’intimità creata dalla sua chitarra e dal pianoforte.

In My Afterlife continua dunque l’epica neofolk grigioscura di Engines of Hell, un disco che ha brillato – e continua a brillare – per la sua profonda e minimalista intimità, capace di amplificare a dismisura il talento di songwriter di Emma. Dopo le sortite più heavy della collaborazione con i Thou, infatti, la virata verso una più spettrale semplicità ha donato al suo “tocco” una potenza espressiva decisamente fascinosa e indissolubilmente ammaliante.

Questa traccia conclusiva presenta visivamente la cantautrice in una veste inquietante e carnascialesca (Papa Tobias Forge ne sarebbe fiero), che ben si sposa con i toni poetici e sepolcrali della sortita ultraterrena che chiude il viaggio dalla e verso una fragilità tutta umana. Di fronte alla fine – creatura mitica e assolutamente contingente ai cancelli della vita – ci si stringe intorno a un fuoco (grigio, naturalmente) con una magia tanto semplice quanto eterna.

«But I remembered all of your lines from the living / And told them to my nearest keeper / A distant star there was laughing, said you were funny / And now we’re free, and now we’re free».

Emma Ruth Rundle 

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