Un rifrullo di schiaffi teutonici contro lo sconsiderato degrado del pensiero critico.
Gli Ocean son tedeschi fino all’osso: programmano i propri passi con regolarità e cura del particolare, progettano il loro microcosmo testando ogni possibile scenario perché non sopportano l’idea di un inconveniente o di un tassello non allineato agli altri. Se smettessero di fare musica probabilmente verrebbero assunti come ingegneri all’Audi o alla Volkswagen così, sulla fiducia, saltando direttamente il periodo di prova. E invece continuano imperterriti con il loro progressive metal complicato solo fino a un certo punto, piacevolmente intricato, eppure sempre e comunque divulgativo, sciorinato con quella benevola aria di superiorità da professore accademico che ok, hai fatto una domanda stupida, ma ti rispondo lo stesso. Son tedeschi, dopotutto: mica si possono proprio abbassare al tuo livello.
Una decina di album in vent’anni (molti dei quali con la corrispettiva versione strumentale), due EP (di cui uno in split con i giapponesi Mono), tour con mostri sacri come Opeth e Anathema, presenze fisse ai maggiori festival del settore (Roskilde, Pukkelpop, Roadburn). Una lineup in costante stravolgimento: gente che viene, gente che va, gente che torna, gente che scompare senza che se ne sappia più nulla. Collaborazioni con i più talentuosi visual artist (chiedete di Dana Schechter in questo caso specifico), perché suonare e basta, dal vivo, non sia mai.
Il tutto accomunato da un’unica costante: un interesse ossessivo, quasi una sadica mania, verso la storia geologica del nostro pianeta, unita a ripetuti atti d’accusa per come noi figli ingrati stiamo lasciando madre Terra a marcire all’ospizio. Leggete i titoli dei loro dischi solo per farvi un’idea: Aeolian, Precambrian, Heliocentric, Anthropocentric, Palaeozoic, Mesozoic / Cenozoic. Pare di essere tornati alle medie, eh?
Però, se lezioncina deve essere, che lasci i segni. Bisogna infatti dare atto alla banda di Robin Staps di aver fatto alla geofisica quello che i Mastodon hanno fatto a Melville: renderne il processo di apprendimento brutale, pur nel suo lusingarci e confortarci in quanto esperienza immersiva e militarmente organizzata.
Preboreal è comparsa con il nuovo anno, insieme a un conto alla rovescia che si concluderà a metà febbraio, data di probabile uscita del nuovo lavoro (son tedeschi, quindi a loro modo prevedibili). C’è dentro di tutto: sintetizzatori, chitarre, drumming da contest di matematica, archi, fiati, cantato in inglese, spoken word in francese, germanico incedere, scandinave ariosità. Fai due conti e non capisci come sia possibile tirare le fila di tutto quel ben di Dio, di come ogni dettaglio possa finire magicamente al suo posto, di come il suo posto si riveli esattamente l’unico dove poteva incastrarsi.
Poi ti ricordi che son tedeschi, e… che ve lo dico a fare?