La vita è una parentesi tra la nascita e la morte.
Elisabeth Kübler-Ross, psichiatra elvetica, è nota per aver descritto per prima le cinque fasi del dolore. La prima è il diniego, dove rigettiamo la verità che troppo ci fa male, aggrappandoci a una versione personalizzata ma irreale delle cose. La seconda, che è l’inizio del lungo percorso di guarigione, è la rabbia. Sentimento spesso tenuto a bada nella vita quotidiana, è il contatto con la realtà da cui ci si era distaccati a causa dello shock: meglio sfogarla e lasciare che il nostro io torni, come si suol dire, con i piedi per terra. La terza è la contrattazione. Una volta che la realtà diventa chiara ed è impossibile sottrarsi agli eventi, si cerca il male minore, il compromesso, si è disposti a cedere un poco del proprio sé pur di riuscire a tornare in equilibrio. È la fase peggiore, quella degli and if infiniti, che porta quasi sempre automaticamente al punto quattro. La quarta, appunto, è la depressione. Il vuoto lasciato dalla mancanza improvvisa di qualcuno ci destabilizza, e cerchiamo rifugio in noi stessi chiudendoci a riccio. L’ossessione per il fiore mancante fa scomparire le migliaia di piante che circondano la nostra esistenza. L’accettazione è il passaggio finale. Il rialzare la testa, seppur in maniera diversa da prima. Non è negare che le cose siano cambiate, è il prenderne atto e risettarsi sulle nuove coordinate, coscienti che nulla sarà più esattamente come prima, ma che – appunto – comunque sarà. Vale anche per noi stessi, per le paure intrinseche di morire: finché ci mangiano dentro, non viviamo. Appena si fa pace con il pensiero che tutto ha una fine, si torna a vivere.
È uscito il nuovo singolo dei Depeche Mode, il primo dalla morte di Andy Fletcher. Piacevole, con una ritmica che rimanda a certe loro cose dei tardi anni ‘80 e delle melodie a cavallo tra i ‘90 e i primi 2000, tipo una rivisitazione vintage di Playing the Angel. Stavolta il vero centro del tutto non sono le pur splendide armonie create da Martin Gore, bensì le parole magistralmente interpretate da Dave Gahan. Soffermarsi sul testo è la chiave per apprezzare appieno i Depeche Mode del 2023. Non più giovani, non più bramosi di mangiarsi il mondo, non più poeticamente tormentati: semplicemente adulti, con pensieri e suoni che rispecchiano in pieno il tentativo di esprimersi a cuore aperto anche dopo una certa età.
Molti diranno che è un’operazione commerciale, ma ragionano con le regole di un mercato che non esiste più. Oggi se riempi gli stadi facendo sold out ovunque e hai un catalogo sterminato da cui pescare mega hit, non hai bisogno di investire tempo e denaro in un nuovo album che, se fatto bene, con le vendite non rientrerà nemmeno delle spese vive. Lo fai perché hai qualcosa da dire, e ciò che vuoi comunicare a vent’anni è diverso da quello che vuoi esprimere a quaranta, tanto più a sessanta. Cambiano le priorità e i modi, gli stimoli: la morte (di compagni di band, familiari, amici) porta a dei cambiamenti nell’approccio all’esistenza.
Ciò che resta è la classe con cui ci costruisci sopra qualcosa che sappia arrivare al cuore delle persone prima che alle orecchie, e in questo Dave e Martin sono sempre stati maestri: sembra facile, ma a scrivere una Ghosts Again come si deve ci vuole talento a palate.
Depeche Mode Dave Gahan Martin Gore
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