Progressive metal che polverizza le ossa di Chuck Schuldiner in un mortaio e ce le soffia in faccia.
Il progressive death metal, quando è nato, ha prodotto poco più di perplessità e sbadigli. Il pubblico sembrava pronto ai Cannibal Corpse – che nascondevano strutture complesse sotto una melassa di viscere e oscenità necropedofile – ma non a gente come gli Atheist, i Cynic, non a caso presi a fischi e bucce di banana durante i concerti di allora.
Oggi i Contrarian si muovono in un territorio canonizzato, seguendo a spingere oltre i solchi visionari di Chuck Schuldiner e Paul Masvidal, assediati da un piccolo mondo di appassionati che accolgono la progressività ritmica e chitarristica di questi borbottoni a 5/8 con un lungo “sì” pensoso.
Mentre scavano un pertugio nelle fameliche gallerie della Gehenna, il loro leader indiscusso e portatore principe del progetto, Jim Tasikas, lancia avanti sprazzi di luce armonizzata e intanto dietro istiga i suoi comprimari a procedere oltre, macinando terra, grazie soprattutto all’isteria rabbiosa del bombardamento ritmico di Alex Cohen.
Non sappiamo dove possa andare a parare un simile dispiegamento di forze tecnicistiche. Non sono interessanti tanto la capacità, l’intrigo ritmico e la tensione strutturale, ma il dolore esistenziale che vi aleggia sopra, come una specie di consapevole condanna. L’uomo è destinato a esplorare luoghi aridi e infruttuosi, succhiando e sputando litri di buio e di sangue vecchio, accontentandosi dei bagliori che riesce a produrre con una lampada difettosa piazzata sulla testa, che punta dritta sul suo stesso naso rotto.