La fiera delle (finte) vanità e la sinistra che non c’è.
La scrittura dei Baustelle risponde a un’esigenza di mimetismo: indossare i panni degli altri per raccontare la bellezza che si nasconde nello schianto dei destini. Che sia la visione obliqua del Corvo Joe, lo spirito di Sylvia Plath che aleggia o un’adolescente che, con il tratto di una Bic profumata, lascia scritto su un foglio che per lei «la guerra è finita», ogni cosa nei Baustelle parla di fragilità e dissolvenza. D’altronde, «tutto brucia, siamo salvi, abbiamo voglia di non parlare e ballare al concerto dei Pixies» canta Francesco Bianconi in Zuma Beach, forse solo per spegnere il mondo che abbiamo addosso.
La band è sempre stata immersa in una sorta di personale commedia dell’arte del vivere, così come nel nuovo singolo Contro il mondo che anticipa l’album Elvis, in uscita ad aprile. Anche l’equilibrio della narrazione di un’avventura finita malamente al Primavera Festival sposta il baricentro interiore sull’elogio della normalità come statuto democratico dell’esistenza o, più semplicemente, rivendicazione del proprio stare nella vita e di surfare come Charlie che vorrebbe «star fermo mentre il mondo va».
Il brano è avvolto da un’aura di disincantata leggerezza e dalla solita grande sensibilità nel far respirare ogni cosa attraverso aperture che si insinuano immediatamente sotto la pelle. A tutto questo si aggiunge il peso delle parole, quasi fossero disinnescate dal loro senso per diventare spore di bozzoli che esplodono. Alla fine della fiera delle (finte) vanità, il mondo diventa un abito da indossare per mimetizzarsi ancora una volta e sopravvivere a tutto, al grande vuoto e alla sinistra che non c’è.
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