Rallenta il funk, senti il ritmo.
Famosi per il groove trascinante del loro basso, da cui nascono incredibili linee ritmate tra le dita di Joe Dart, i Vulfpeck si sono sempre schierati in prima linea nell’impresa della rivisitazione del funk. Una missione tanto ardua quanto inflazionata, quella del rinnovamento di generi classici del Novecento, che la band americana riesce a portare a compimento da dieci anni. Giocando con diverse scelte inaspettate e irriverenti – tra cui spicca la pubblicazione di Sleepify, un album di sole tracce mute –, sono sempre riusciti a tenere lo sguardo fisso sulla loro stella polare, contaminando un genere di cui sono diventati nel tempo portavoce.
All’uscita dell’ultimo disco – Schvitz –, i Vulfpeck esplorano una nuova frontiera, di cui Miracle sembra essere il manifesto. Rallentare il tempo, ridurre all’osso ogni parte della composizione, dalla strumentazione fino alla struttura del brano. Se per metà dell’esecuzione gli unici strumenti utilizzati sono basso e batteria, lo spazio viene colmato con un folto coro che rimanda all’R’n’B e al soul. Un accrocchio di voci che sin intersecano, si aggrovigliano, creando e sciogliendo intrecci che circondano chi ascolta. Al centro di tutto un nucleo di ritmo cadenzato e potente, caratterizzato dal leggerissimo ritardo delle singole note, così da sprigionare il famoso “groove”.
Un piccolo gioiello di semplicità intima, che esplode con un obbligato di chitarra acustica, voce e sax, con cui si spalancano le porte della canzone all’ingresso di altri elementi, come un pianoforte Rhodes che entra danzando sull’armonia vocale, arricchendola con leggere variazioni sul tema che impreziosiscono il brano fino alla fine.