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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Finalmente, con tutta calma.

Sono quasi cinquant’anni da che rinacque a seconda vita (dopo i Genesis), ma Peter Gabriel non è cambiato per nulla, se è vero che è da quasi venti che ha in gestazione il nuovo album I/O, previsto per il 2023. Che poi sarebbe anche il primo disco di inediti dal 2002: «take her easy, Dude», direbbe Sam Elliott del Grande Lebowski.

Panopticom è il primo singolo estratto da I/O e – come di consueto per un personaggio come Peter Gabriel – non è solo una canzone: è un concept, un progetto, un’idea, una costellazione di citazioni, un melting pot di suggestioni artistiche. «Si basa su un’idea su cui ho lavorato: avviare la creazione di un mondo di dati accessibile [accessible data globe] espandibile all’infinito», scrive Gabriel. «Stiamo iniziando a connettere un gruppo di persone che hanno la stessa visione e che potrebbero essere in grado di dar vita a questo progetto, per consentire al mondo di avere una migliore visione di sé e capire meglio cosa succede».

Uhm, ok. Da Real World (gli studios di Gabriel) a Data World, d’altra parte, è un attimo. Qualsiasi cosa voglia dire. Ma c’è ovviamente di più: i riferimenti alla rete globale, alla tendenza compulsiva a condividere ogni nostro momento sui social, la nostra disponibilità più o meno conscia a farci sorvegliare. E d’altra parte il titolo stesso è un gioco di parole tra “panopticon” (il carcere ideale del filosofo settecentesco Jeremy Bentham, struttura architettonica congegnata perché un unico carceriere potesse avere visibilità su una pluralità di carcerati) e “dot com”, estensione simbolo dell’era di Internet.

Ma il pezzo com’è? È un bel brano, semplice nella sua struttura, forse fin troppo prevedibile nelle linee melodiche, ma efficace, e soprattutto riccamente suonato e prodotto: impreziosito dal solito Tony Levin – il suo basso eleva qualsiasi cosa – e con la comparsata di lusso di Brian Eno che si occupa delle “bells and haunting synths” (d’altra parte è Brian Eno, non è che si può occupare di volgari tastiere). Aspettiamo il disco.

Peter Gabriel Brian Eno Tony Levin Genesis 

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