Quel violino zigano che strilla nel fango.
I Ne Obliviscaris non schiodano dal solito formulario stilistico in cui Claudio Abbado muore nelle sabbie mobili dietro casa, uscendo in cerca di funghi. Si tratta di un dramma che la mente dell’ascoltatore subisce ogni volta che si imbatte in una delle capsule creative della band, che in fondo è piatta come una distesa di tombe marsupiali.
Eppure Equus è diverso. Questo brano è come la trappola dei Ghostbusters: fuma e gronda rimostranze ectoplasmiche di un demone acciuffato tra la chiave di violino e quella di basso. Le voci si avvicendano alla solita maniera campestre e da staffetta, l’orco ruggisce dalle viscere del poeta e l’angelo schizza auliche invettive da dentro il cuore stanco. Gli archi volteggiano come pale d’angelo sul soffitto della vostra ultima notte disperata e alla porta frulla una doppia cassa con la stessa impaziente stanchezza di un sottopagato servizio in camera.
Ma in tutto questo parapiglia di contaminazioni previste, ecco che emerge un filo di luce da sotto la porta, con una tonalità così strana da spingerci ad alzare le chiappe dal letto, strisciare in terra fino all’ingresso e percorrerne il sentiero retto e pulviscolare che accoltella la moquette, con le dita umidicce. La notte è finita e una volta fuori, il cielo grigio e musone ci accoglie senza gioia, mentre le orecchie continuano a ingoiare gli scampoli in minore di una sonata metallica degna di una tragedia palustre da Bayou del dingo impiccato.