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Haken: The Alphabet of Me
Meglio vestiti così?

Una carambola spaziale nella foschia sociale del domani.

Gli Haken stagnano nella nebbiolina british e servono subito un sound da fitness morning, vestiti da tamponatori COVID. Subito uno pensa al peggio, ma in questi cinque minuti e qualche spicciolo succede davvero tanto, attendete quindi.

Seguendo l’unica vera massima tradizionale del progressive, vale a dire che parti da un punto e non ti chiedi dove stai andando finché non senti di essere arrivato, gli Haken onorano la missione a cui sono votati.

Dal fraseggio sincopato di un moderno pop sintetico, il brano abbraccia le dissoluzioni esotiche dei vecchi Toto, fin quando non esplodono la distorsione e le consuete scarpinate su e giù per le sette corde, con questi maniconi di bassi e chitarre, austeri quanto le barbe tinte di chi suona. Potremmo parlare quasi di space rock se già non esistesse un settore ben definito a sbugiardarci l’accostamento, di conseguenza meglio tenersi “space” e aggiungere “open”, perché The Alphabet of Me sa davvero di arioso, bianco: in un arredamento spartano, gente vestita in tute sterilizzate fa la conta dei nostri germi spippettando una tromba jazz da Banda Osiris dopo un incidente stradale.

Sulla Viennetta di croccante gelateria, il pacioso e rassicurante Ross Jennings cala una fumosa sleppata di burro liquido, provocando un crepaccio che, dalla glassa cioccolante della comfort zone prog, scava fino ai recessi del nostro cuoricino spaventato e abbarbicato sulle solite fascinazioni d’altri tempi.

Gli Haken ci frullano nel presente e ci fanno pizzicare il naso, oltre agli occhi.

Haken 

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