Guadare avanti, anche in ambito metal.
Si continua a dire che nel metal non stia avvenendo nulla di nuovo da troppi anni e che le giovani band seguano pedisseque l’esempio dei vetusti maestri, i cui dischi ormai classici sembrano tanti ritratti di Dorian Grey. E questo è in fondo vero. Però non tutti i gruppi che si sono affacciati sulla scena recentemente voltano la testa al passato e si riempiono la bocca e lo spazio creativo di vecchi poster e di retorica rockerolla. Per esempio, prendete gli Avatar.
E in particolare partite da The Dirt I’m Buried in, un brano trascinante e cazzuto. Ma non è solo questo che lo rende speciale e ci spinge a esaltarlo come esempio di un metallone vivo e stimolante. Per prima cosa dentro potete trovarci non solo il suono saturo dei chitarroni: c’è un arrangiamento funzionale che va dalle piste disco-stu al funk e tiene più larghi possibili i confini mentali dell’ascoltatore, senza asfissiarlo nel solito panorama produttivo alla Stranger Things.
È inoltre un pezzo che potrebbe funzionare benissimo senza chitarre, perché si basa su una melodia vincente e ha un cuore pulsante che calcia via la sedia da sotto il nostro sedere e ci costringe a rispondere fisicamente, anche se non siamo i tipi da sculettar l’anima. E questo è il segreto di una grande canzone, può arrivarti in tutte le vesti possibili, a prescindere dai watt e dalla distorsione, dalle urla e dalle martellate del batterista sulle pelli.
Purtroppo il metal di oggi è caduto in un equivoco pensando che la qualità emerga spontanea solo in un pentacolo di stereotipi anni ‘80. Ma c’è ancora speranza, a quanto pare.