Compagni, abbracciamo di nuovo l’utopia del leftismo.
Non si può certo dire che i Leftfield siano mai stati gente che si fa prendere dalla fretta. Ormai sono in pista da così tanto tempo che Neil Barnes (l’unico rimasto della formazione originale) ha una figlia abbastanza cresciuta da aver già pubblicato due dischi per conto suo. Eppure, in ventotto anni suonati di Leftism, si portano in tasca un catalogo minimale di giusto quattro album in croce. Quando si dice fare le cose con calma. Quando si dice fare le cose per bene. Quando si dice essere lì not only for the money.
Sì, perché quello che è universalmente riconosciuto come uno dei progetti più influenti del panorama dance europeo e internazionale (per dirne una a caso: se esiste un qualcosa chiamato progressive house lo dobbiamo a loro) non vanta al suo attivo nemmeno una Born Slippy qualunque da lasciare impressa nell’immaginario collettivo dei posteri (anche se nella colonna sonora di Trainspotting la loro porca figura ce l’hanno fatta comunque). Al massimo si sono permessi giusto il lusso di comparire in quella pietra miliare della cultura pop che può essere uno spot della Guinness. Ma si sa: una birra non si rifiuta mai.
C’è un problema, però. E il problema con i producers un po’ âgées che hanno fatto il bello e il cattivo tempo negli anni d’oro della UK club culture è che nell’alba di questo nuovo ventennio tendono a essere considerati un retaggio, un’eredità: esempi da rispettare, sì, ma come rispetteresti tuo nonno o il povero Matusalemme. Questo è dovuto al comune fraintendimento secondo cui la musica elettronica invecchia in fretta: nuovi trend e tecnologie compaiono come funghi in una mattina umida, a una rapidità impressionante, tale che è facile pensare sia impossibile rimanere al passo.
E qui arriviamo al dunque. I Leftfield lo sanno e – come direbbero i giovani d’oggi – questa è la vastità del cazzo che gliene frega. Fully Way Round è un banger che sembra preso direttamente dal ‘96 per far impallidire almeno un paio di decenni di evoluzione di un genere musicale. La secca aggressione ritmica dei Chemical Brothers sui synth bassi e scivolosi dei Blackstrobe, la garra dei Prodigy a cui è toccato l’ultimo tiro nel giro di canne dei Massive Attack.
E poi – a piantare bene i piedi del tutto in questo finale di 2022 – la voce impastata di Grian Chatten, che descrive vivida come poche un giro in taxi notturno, solo e ubriaco fradicio, senza dover fare nemmeno il minimo sforzo né cambiare di una virgola, il tono, lo scazzo e il flow che ha perfezionato nei Fontaines D.C. per calzare a pennello nel ruolo borbottato di predicatore logorroico che in passato è stato di John Lyndon e degli Sleaford Mods.
Il disco appena uscito lo dice a chiari termini, senza mezzi giri di parole: This Is What We Do. E quello che fanno non è rotto, funziona ancora. Non dà segni di cedimento o cali di prestazione: non ha bisogno di essere aggiustato.
Leftfield (feat. Grian Chatten) Leftfield Grian Chatten Fontaines D.C. Neil Barnes Paul Daley
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