Così derivativi da fare quasi il giro intero e risultare attuali.
C’è chi nasce troppo prima di quando dovrebbe: nella migliore delle ipotesi non viene capito e se la cava con un po’ di noiosa frustrazione e qualche seduta da un terapeuta bravo, nella peggiore viene bruciato su un rogo allestito all’uopo in qualche pubblica piazza. In entrambi i casi verrà poi rivalutato in un futuro più o meno prossimo come visionario precursore a cui tributare inutile gloria postuma – ma questa è un’altra storia.
Qui infatti parliamo di quelli che invece nascono troppo dopo rispetto a quando avrebbero dovuto: nella migliore delle ipotesi vengono scherzati con qualche meme a tema boomer, nella peggiore accusati di plagio e marchiati a fuoco vita natural durante dalla crème de la crème della critica come gente da cui possiamo aspettarci solo minestre riscaldate.
Al pari di una bomba di paillettes sul punto di esplodere, i CVC (acronimo che starebbe per Church Village Collective e vorrebbe rappresentare un qualche riferimento alla zona rurale del basso Galles da cui provengono) sono atterrati da poco nel mondo dell’indie britannico, portandosi appresso una tempesta di colori, coriandoli e scintille del tempo che fu. Il mondo dell’indie britannico – che mediamente tende a tirarsela come pochi in termini di seriosità autoreferenziale – non è ben chiaro come l’abbia presa.
Da qua, oltre la Manica, possiamo solo mettere agli atti quanto il loro uber-retro rock finisca per appiccicarsi addosso, sciallatissimo e contagioso, nonostante – a prima vista e ascolto – sembri fare eccessivo affidamento su un guardaroba (musicale e non solo) sgargiante oltremisura, raccattato direttamente in qualche negozietto di seconda (ma anche terza) mano, e sui baffi del cantante di origini italiane (Francesco Orsi), senza ombra di dubbio teletrasportato ai giorni nostri direttamente dall’era dorata degli albori del porno, grazie a una bacchetta magica a forma di arrosticino abruzzese. Per capirsi, siamo di fronte a uno di quei casi in cui ci si mette meno ad ascoltare direttamente il pezzo che a fare la lista delle possibili influenze.
E allora ascoltiamolo, il pezzo. Sophie è a tutti gli effetti una bizzarra dichiarazione d’amore via lettera a Nania – la fidanzata del tastierista Daniel Jones. “Bizzarra” perché invece di incensare come al solito gli occhi, le labbra, la dolcezza o il sense of humor della ragazza, ne (appunto) canta le lodi come vocalist, rammaricandosi che non abbia mai voluto prestare la sua voce d’usignolo alla band, se non – al massimo – dare l’autorizzazione a usare come intro di questo stesso brano una sua registrazione in cui si nega timidamente, dichiarandosi imbarazzata al riguardo.
Per il resto stiamo in un mondo incantato tra i ‘60 e i ‘70, una casa degli specchi in cui non sai dove voltarti senza cadere preda di un caleidoscopio che sovrappone con innata maestria le facce e le note di personaggi ormai mitologici come gli Steely Dan, i Turtles dell’ultimo periodo, Crosby, Stills, Nash & Young e chiunque altro abbia provato a mettersi in quei panni nei secoli successivi. Eppure, per essere vintage music che pesca a strascico tra i dischi della nonna e sbarca il lunario a forza di «uh la la la», suona stranamente al suo posto, anche qui e ora.