Il colpo di coda dei peperoncini losangelini?
Per molti – forse moltissimi – i Red Hot Chili Peppers sono un gruppo che è stato abbandonato come un CD in soffitta e lasciato soltanto in pasto al grande pubblico. I motivi per tutta la polvere da musicofilo caduta sulla band sono tanti, ma è forse uno quello più onesto: troppi dischi veramente infami (con il culmine di I’m With You).
Suoni sempre più morbidetti e plasticosi, performance non sempre all’altezza dello status: quelle cose lì, insomma. Roba che ha iniziato a pesare non poco sulla reputazione (nella sua accezione di “valenza artistica”) dei Peppers.
Ecco però che quando appaiono pezzi come Reach Out qualcosa sembra di nuovo smuoversi nei fan più scapocciatori. Un tocco più “fuori dagli schemi”, un recupero quasi grunge di certi toni e un certo sperimentalismo (considerando gli abusi standardizzati di certi schemi radiofonici che li hanno caratterizzati ultimamente) rendono il tutto nuovamente capace di ricordarci perché Kiedis e soci sono stati così idolatrati. Dopotutto, in mezzo alla prolissità estrema di due doppi dischi pubblicati in un solo anno (va bene che è tornato Frusciante, ma sarà un po’ troppo, no?), qualcosa ancora riesce a suscitare sincero interesse.
La loro fusione attitudinale di funk, metal e hip hop un tempo è apparsa rivoluzionaria, insieme alle spinte nudità e personalità eccentriche, certo. Ora i Peppers possono solo ricordarci che sanno fare anche bei pezzi. E forse va bene così. E accettiamo anche i baffetti hipster e i tributi a Van Halen. Alla fine della fiera non si può essere davvero fuori dal mondo e dai suoi schemi.