Si chiama glitch hop e sarà l’unica musica a disposizione di chi sopravvivrà.
Marcos Ortega ha un nome da sudamericano losco, a metà tra il galoppino di un narcotrafficante e una mezzala ignorante – di quelle che giocano senza parastinchi, con i calzettoni abbassati e le caviglie nude al vento giusto per provocare i tacchetti dei difensori – di una squadra di metà classifica della Primera División argentina. Di faccia pare il figlio di Tuco Salamanca, il che confermerebbe l’ipotesi di partenza, e invece sono più di dieci anni che campa di una musica elettronica tutta (di)storta a modo suo. Se controlliamo i registri dell’anagrafe risulta ufficialmente composta a Milwaukee, Wisconsin, eppure appena l’ascolti fai una fatica porca a non associarla alla topografia metropolitana della moderna dubstep inglese. Burial l’avete detto voi, io l’ho solo pensato. Che poi – come diceva il gobbo – a pensar male si faccia peccato ma spesso ci si azzecchi è solo un effetto collaterale che non cambia il giudizio.
Sì, perché il giudizio è un bel pollicione su, dritto verso il cielo scuro di quella distopia postapocalittica con cui i campioni del beat malato flirtano ormai da decenni (vedere il video di questa ENTROPYYY – a firma Sagans – se non vi è chiaro di cosa stiamo parlando), sfacciatamente sicuri di avere l’esclusiva sui diritti della colonna sonora della nostra estinzione.
D’altra parte – per rimanere appunto in tema di soundtrack – se hai rischiato per un pelo di finire in quella di un film di Darren Aronofsky, vuol dire che, musicalmente parlando, qualche rotella fuori posto devi avercela per forza. In senso buono, s’intende. Dal momento che riesci a rendere percepibile all’orecchio e alla pancia il senso di una panoramica in movimento vista dall’occhio grandangolare di un drone che vola davvero troppo vicino ai camini e alle tegole, sfregando le sue ali meccaniche contro le grondaie arrugginite. Disturba, ma ha il suo fascino, il linguaggio di LORN. È il suono di un cocktail di molotov scagliate piano contro la finestra del comune concetto di disco music, con il preciso obiettivo di raccoglierne i vetri sottoforma di campionamenti post-hip hop scheggiati, il cui angolo di rifrazione finisce per piegarsi attraverso il filtro di synth spugnosi in chiave minore, soundscape annebbiati e brandelli di voci scrostate dal muro del (non) mondo che verrà.
La bellezza che ne deriva è cruda e senza fronzoli, affilata come la lingua di tua suocera e stretta a fessura come il culo di un borsello proletario, sempre chiuso, sempre al verde. Un senso di dramma frenato, che a tratti sconfina senza imbarazzo nel sentimento turgido, alieno e distaccato.
Alzi la mano chi crede sia un difetto, e scappi subito nella sala accanto, quella dove suona Calvin Harris. Perché qui questa è l’aria che tira: viziata, più che viziosa — pesante, ma sempre pensante.
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