Il genio è trance e groove, intelligenza e vigore.
Si fa in fretta a scrivere “genio”, oggi che tutto è spacciato per relativo. In realtà i giudizi andrebbero ponderati e calibrati con cura per non arrecare danni a band il cui talento è cristallino a prescindere dalla nicchia in cui agiscono. Valgano a mo’ di esempio gli Horse Lords da Baltimora, una certezza nell’ambito dove post-rock e avanguardia si confondono, ed è sempre un buon segno quando non sai dove incasellare un gruppo con precisione. Così è per i ragazzi, attivi da un decennio e intestatari di una scala reale di album che ha raggiunto la maturità nel penultimo The Common Task.
Gente che guarda dall’alto in basso la concorrenza grazie a una ricetta personale ottenuta da ingredienti riconoscibili, e così risolve un ipotetico paradosso. Gente che, contrariamente a troppe formazioni affini, evita gli eccessi intellettualoidi e il frigido autocompiacimento. Da bravi americani, gli Horse Lords badano al sodo e non fanno minimamente pesare bravura e intelligenza. Preferiscono cucire Fela Kuti e This Heat, Battles e Can, jazz libero e minimalismo colto usando il filo rosso fisico e cerebrale che appartiene al rock prefissato art di grana fine.
Eloquente una Zero Degree Machine che, dritta dal recente Comradely Objects, dipana in sette minuti trance ipnotica su un groove da Africa metropolitana e infine si scioglie dentro un loop circolare. A farla breve, una faccenda favolosa che entra subito in testa e muove le gambe. Ebbene sì: una faccenda che possiede i crismi del genio.