8 bit di dimensione artistica.
Parliamo della Blue Rev, in pratica la versione canadese della nonna del Bacardi Breezer, ma più trashy, nella sua bottiglia di plastica da quattro soldi. Un alcopop energy drink che ha fatto la sua comparsa in Ontario a inizio 2000, subdolamente infiltrato sui banconi dei bar dei club per adolescenti. La classica spazzatura zuccherosa in forma liquida che ti puoi immaginare ingurgitata alla goccia da dei ragazzini nel parcheggio dietro a un centro commerciale, per illudersi di idratarsi tra un momento passato a odiare tutto e un altro passato a odiare tutti. Il primo stadio dell’alcolismo, nella peggiore delle ipotesi. O del diabete, nella migliore. O viceversa.
Ecco, ora rileggete il paragrafo precedente come metafora musicale e ditemi se non pare la descrizione del sound degli Alvvays: profondamente deliziosa Canadian shit che crea dipendenza anche se il dietologo la sconsiglierebbe, e se la gioca da sempre (e con incredibile maestria) in quella nicchia nostalgica nutrita quasi esclusivamente di sguardi (fatti di sottecchi, ma ammiccanti come pochi) verso il passato, soprattutto a quel jangly post-punk delle cosidette C86 band, come i primi Primal Scream e gli Wolfhounds.
Bene, a questo punto potete guardare come si intitola il nuovo disco della band di Molly Rankin. Tutto (ri)torna alla fine, no? La cosa stupefacente, qui, è che ritorna ogni volta meglio di prima. Nel senso: gli Alvvays si sono sempre dimostrati più che abili nel giostrare tra le meccaniche di una canzone, ma oggi dovrebbero semplicemente farci il favore di metter su una scuola e iniziare a dare lezioni a tutto lo stuolo di wannabe. Da quelli che non chiedono altro che replicare il trucchetto quiet-loud-quiet dei Pixies, a quelli invece vorrebbero provare a stracciare una canzone country con un improvviso, sgargiante cambio di tonalità. Da chi non si vergogna a portare nel panorama indie una slide guitar alla Kevin Shields, a chi niente desidera se non cantare a squarciagola come in una serata karaoke a tema Adele.
Cosa manca? Qualcuno vuole scrivere una canzone psycho pop su un tizio che ti stalkera a forza di like, mention e cuoricini sui social? Fatto. Very Online Guy se la mette via in nemmeno due minuti e mezzo di perfezione rétro: c’è la tastierina al sapore di bubblegum, una batteria che se non è una drum machine in sconto ci fa benissimo, un basso che metterebbe allegria anche a Marvin e una voce con su qualche effetto cheap che però sragiona sopra una melodia a cui non si può dire nulla se non complimenti!
Il tutto condito da un video con dei pixel grossi come delle Pringles a fare da ciliegina (salata) sulla torta. Perché, in un mondo che vorrebbe venderci millemila-K di esperienze di (non) vita a sempre più alta qualità apparente, credere ancora – con commovente premeditazione – nella bassa risoluzione non può che risultare un pregio. Dopotutto – parafrasando il poeta – io il tramonto migliore l’ho visto in sala giochi, sullo sfondo di Out Run.