Hail to Quorthon from Malta.
La prima volta che uno vede la copertina dell’album pensa sia uno di quei dischi/compilation tributo fatti a caso (“S” e doppia zeta sono intercambiabili). Poi legge i titoli dei brani e capisce che no, non lo è, eppure anche qui somiglia non poco a “quel” capolavoro. Insomma che è ‘sta pagliacciata?
Riassumendo: cover art praticamente copiata dal debutto dei seminali Bathory, lettering e moniker che scimmiottano il brand di cui sopra, usando stavolta non il cognome ma il nome della celebre contessa amante del sangue, anche se in maniera vezzeggiativa. Tutto questo basterebbe per cestinare il tutto al primo sguardo, eppure la curiosità mista a sdegno spinge comunque a schiacciare il tasto PLAY. E qui ogni animo critico va a farsi benedire. Anzi, va al diavolo, per l’esattezza.
Perché anche musicalmente il plagio è totale, ma è letteralmente impossibile non lasciarsi rapire da quel modo grezzo e primitivo di approcciarsi al metal. E se alla testa tutto questo fa ripetere: “sì, ma sembra… è copiato da… senti lì come è uguale…”, la pancia se ne fotte e fa oscillare la criniera (o pelata, poco importa) battendo lo zoccolo sulfureo che nel frattempo è spuntato sotto i piedi.
In questo caso l’essere sfacciatamente priva di originalità diventa il vero punto di forza di Black Mass: Zabbeth non cerca di prenderci in giro spacciandosi per innovatore, vuole solo divertirsi e divertire ricreando atmosfere che ormai hanno 35 anni suonati, e ci riesce benissimo. Lode all’onestà (in fondo il suo motto è “Pure Bathory Worship from Malta”) e viva lo scapocciamento ignorante: per l’originalità ci saranno altri giorni, e probabilmente lo stesso Quorthon, ovunque sia la sua anima, se la sta godendo di gusto.