La fenice risorge dalle ceneri del prog.
Remember You Have to Die. A prima vista non un monito particolarmente originale, ma nel momento in cui altri musicisti come i Depeche Mode annunciano il loro nuovo album intitolato Memento Mori, è chiaro che il mood in ci cui siamo infilati da qualche tempo è quello che è, alla faccia della vecchia (in)sana e innocente incertezza sul futuro.
Comunque, questo è il titolo del nuovo album dei Polyphia, band prog stellare attiva dal 2010. Nonostante una fanbase in lenta ma inesorabile ascesa (meritatissima) anche i quattro texani sanno quanto il nuovo modo social – liquido e poco materiale – di veicolare musica e fare promozione faccia fatica ad attecchire nelle persone sopra i quarant’anni (ovvero parte del loro potenziale bacino di ascoltatori): per questo, mediaticamente, invitare un nome come Steve Vai è sia un piacere che una volpata.
Ma il trucchetto finisce lì, perché il brano è stupefacente. Su una progressione semplice di quattro accordi che si ripete fino alla fine (con una minima variazione durante lo splendido, ispirato e sognante solo di Steve) di chiara impostazione pinkfloydiana (che erano dei mostri nel saper creare mondi infiniti con poche note, giocando più sulle sfumature e sulla intensità) i Polyphia regalano al mondo ciò che il prog è oggi, spogliato di ogni posa testosteronica tipica di roba alla Dream Theater. Ogni suono è pulito, nitido, cristallino e non va a sovrastare l’altro: una texture che somiglia più al movimento del mare (calmo, mosso, poi burrascoso) piuttosto che al fuoco (un calore costante con fiammate estemporanee). Un mini viaggio che ha sullo sfondo la genialità dei Rush applicata al mondo moderno, dove le nuove tecnologie sono parte integrante della composizione ed esecuzione, per un risultato che appaga i sensi e riscalda l’anima.
Il progressive (ri)parte da qui.
Polyphia (feat. Steve Vai) Polyphia Steve Vai
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