Con le mani dentro la terra per accarezzare le radici, tra riti di passaggio e ripari contro la tempesta.
La musica di Marisa Anderson sembra essere sospesa nel tempo e nello spazio, in una sorta di dimensione ancestrale in cui si celebrano riti di passaggio con il proprio inconscio e si pagano debiti per peccati mai commessi. Il metodo con cui la Anderson estrapola la propria interpretazione del mondo ha come chiave di accesso la chitarra, strumento a cui, per sua stessa ammissione, si rivolge come fosse una sorta di oracolo per avere risposte e dare coerenza alle idee.
Quattro anni dopo Cloud Corner (al netto di due album con Jim White e William Tyler), la Anderson dà alle stampe il nuovo Still, Here, sempre per i tipi della Thrill Jockey, rimettendo le mani nel cuore della terra e riuscendo ad accarezzare le origini secolari di una vita che si trova solo nelle geometrie di incroci impossibili.
L’opener In Dark Water è un blues ipnotico in cui la Anderson officia una liturgia pagana, dando una voce senza parole a giaculatorie dolorose nei cui versi risuona un mistero obliquamente religioso insito nella potenza della natura e nei suoi percorsi di irrazionale crudeltà. L’arpeggio sulle accordature aperte della chitarra classica innesca ripetizioni circolari che – unite a microsovrastrutture sintetiche e all’uso dello slide – definiscono la grandezza di un vuoto desertico che irretisce le anime deboli per risucchiarle all’interno di un nucleo di antimateria emotiva.
Nelle linee armoniche di questo blues crepuscolare si avverte la tensione verso un’umanità alla disperata ricerca di un luogo sicuro in cui trovare riparo. In Dark Water parla di ciò che non esiste o, forse, si trova a latitudini sperdute da noi, come il viaggio che il reverendo John Ames fece con il figlio nel bel libro di Marilynne Robinson, Gilead: si parte per dare una giustificazione al nostro perdersi, solo per non ammettere che si è in cerca di noi stessi.