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Una volta alla settimana compiliamo una playlist di tracce che (secondo noi) vale davvero la pena sentire, scelte tra tutte le novità in uscita.

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...Tutte le tracce che abbiamo recensito dal 2016 ad oggi. Buon ascolto.

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A volte è necessario approfondire. Per capire da dove arriva la musica di oggi, e ipotizzare dove andrà. Per scoprire classici lasciati indietro, per vedere cosa c’è dietro fenomeni popolarissimi o che nessuno ha mai calcolato più di tanto. Queste sono le storie di HVSR.

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Fever Ray: What They Call Us
Bella cravatta

Uno schiaffo in faccia. A se stessi.

Prendersi del tempo. Ad esempio sedersi al tavolino esterno di un bar, assaporando il tepore del sole autunnale, ordinare un caffè corretto all’amaretto e un bicchiere d’acqua, guardandosi in giro e perdendosi nei colori magnifici della natura che, dopo l’estate, dà il meglio di sé in un ultimo, vigoroso slancio, prima che il mantello dell’inverno la faccia riposare fino alla primavera. Spegnere il telefono e fare finta che il mondo là fuori resti effettivamente “altro”.

Spegnere. Il. Telefono.

Da quando il peso di ciò che accade a chiunque e ovunque ha cominciato a spingere violentemente sul nostro sterno? Forse una data precisa non c’è, ma di certo l’avvento dei social, degli smartphone (che ci permettono di/costringono a essere “reperibilmente altrove” 24 ore su 24) e il giro di vite (involontario?) dato dai lockdown ha accelerato il processo. Tutto è importante. Tutto fa sdegnare. Per ogni argomento bisogna avere qualcosa da dire, anche se magari un’opinione fondata e sentita non la si ha. Come per gli arcobaleni LBGTQ+.

Siamo davvero sicuri che la sovraesposizione forzata di tutto ciò migliori la situazione reale di chi certe discriminazioni le vive? Siamo davvero certi che due leggi in parlamento curino le violenze tra le mura domestiche o il mobbing sul lavoro? È questo un percorso realmente inclusivo come viene sbandierato oppure è solo una copertura colorata che lascia ancora più soli coloro che cercano di sopravvivere in questa società?

Ecco, ascoltate il nuovo, splendido singolo di Fever Ray, e pensateci. Riflettete su quanto tempo vi sia stato sottratto dalla realtà buttandovi fumo negli occhi mentre seguite il flow lento e sghembo del pezzo, che cresce un poco alla volta senza davvero esplodere mai, lasciando un senso di sospensione e incompiutezza che è la trasposizione in musica di chi prova ansia e non vede soluzioni. Fatevi delle domande e chiedetevi se sono le stesse che si è fatta Karin Dreijer nei cinque anni che sono trascorsi dal suo precedente lavoro in studio. Riflettete sul perché sia stata composta e registrata con il fratello Olof, facendone formalmente un lavoro dei Knife (eppure no). Lasciate che i brividi corrano lungo la schiena senza vergogna mentre il pop elettronico immerso in atmosfere industrial di What They Call Us vi travolge i sensi. E leggete il testo. Perché parla di lei. Di loro. Di noi. Perché è un sentimento universale che riguarda chiunque: la paura di essere ghettizzati, non accettati, derisi: è il motore che porta a un bivio. Chi soffre e si chiude in se stesso, chi cerca altri da colpire, sfogando su di loro le proprie frustrazioni mascherate da razzismo o intolleranza. Il giudicare tutto e tutti, dimenticandosi prima di fare autoanalisi è il nuovo (o se non altro quello più di moda oggi) trend dell’uomo occidentale 2.0.

Non è un pezzo facile e non è nemmeno un videoclip leggero: infinite chiavi di lettura da scoprire dietro lo scorrere delle immagini e non una che sia salvifica. È una cruda polaroid di quello che siamo diventati, e non c’è nulla di cui essere fieri.

Prendere fiato, sedersi a quel bar e disconnettersi dalla rete, scambiando due parole con l’essere umano nel tavolo a fianco (non importa il colore o cosa gli piace fare a casa, l’empatia è tutto) può essere il primo passo verso una re-umanizzazione dei rapporti.

Musicalmente, un grande ritorno. Eticamente, uno degli spunti di riflessione migliori usciti dal mondo pop degli ultimi mesi.

Fever Ray The Knife Karin Dreijer 

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