Cercando di trovare la serenità nell’immensità di un oceano.
Gli Young Jesus hanno iniziato un percorso da cult band. Poi, con l’ottimo Welcome to the Conceptual Beach, hanno posto nuove basi per il loro sound, trasformandolo in qualcosa di più melodico, ma che ancora mantiene la sua complessità e la voglia di ricerca, insieme alla consueta capacità di esprimersi in modo semplice e immediato.
Il leader della band John Rossiter sta alla band un po’ come Conor Oberst sta ai Bright Eyes: figure complesse con una dimensione personale e intellettuale affascinante, capaci di toccare emotivamente l’ascoltatore sia per l’intensità dei testi che per le loro notevoli capacità interpretative.
Così, anche questa volta, riescono di nuovo a portarti nel loro mondo, dove il falsetto di Rossiter si combina bene con la vocalità di Tomberlin (compagna di casa discografica alla Saddle Creek), e ci racconta con delicatezza poetica i pensieri che la morte di un giovane amico può scatenare.
Tra la speranza di essere parte di qualcosa di più grande («God is just the ocean where I’m lost») e l’insinuarsi di una sottile insicurezza («Like the wind run through the leaf / What I am is what I’m not / I believe this isn’t what I thought») vince la ricerca di una pace interiore.
Il momento di riconciliazione con l’evento tragico sembra trovare l’unica via di fuga nell’idea di essere semplicemente la trama intrecciata da un misterioso divino tessitore che ci rende parte del tutto. Di certo è un pensiero molto più rassicurante rispetto a pensarla come Tom Waits, ovvero che Dio si è scordato di noi, se ne è andato, o è semplicemente fuori per affari.