Il grido strozzato dell’autoanalisi.
I bigini, quei librettini formato ultra mignon che, condensando tutto il condensabile, riuscivano a contenere le fondamentali di un argomento di studio. Prima dei Duemila erano un must, ora ormai perduto, ma rimangono l’emblema di ciò che dovrebbe essere un riassunto: breve, esplicativo, efficace.
The Pain of Being Awake dei Gillian Carter (attivi dal 2005, di stanza in Florida), a suo modo, è un bigino esistenziale in musica. Due minuti e ventidue secondi di furia cieca dove apparentemente il caos sembra far da padrone, prima che un breakdown letale trasformi la progressione del riff in un magma lento e pesantemente oppressivo. Solo il tono della voce non cambia: un grido monocorde che è veicolo di rabbia e disperazione prima, di impotenza e desolazione poi.
Prendendola alla larga stiamo parlando di metal nel senso più ampio, al quale il critico più attento dovrebbe attaccare l’etichetta più adatta non prima di averci messo un “post” davanti.
Prendendola invece in maniera sintetica, The Pain of Being Awake già dal titolo è un concentrato del male di vivere A.D. 2022, una fotografia impietosa di uno stato d’animo sofferente, condivisa su un social alle tre di notte. Quanto sia abbastanza forte da far smettere anche solo per un secondo di scrollare, sta alla sensibilità del singolo. Nonostante tutto, anche se senza la minima delicatezza, ci ricorda che siamo vivi. Nel bene e nel male.