Black(ened) is (not) the end (of metal).
Una delle caratteristiche migliori di un certo metal estremo è quella di non essersi mai data dei limiti. Al massimo sono gli ascoltatori che – duri e puri – vorrebbero che le proprie band preferite continuassero per sempre a riproporre le stesse cose, ma è proprio dall’evoluzione libera da pregiudizi e sganciata da qualsivoglia interesse nei confronti del mercato discografico che nascono dei piccoli capolavori.
Basti pensare alle carriere di gruppi come Voivod, Cynic, Death, Emperor, Celtic Frost e decine di altri pionieri per capire quanto il voler alzare l’asticella ogni volta di più aiuta a mantenere fresco e interessante il materiale.
La stessa cosa si può dire ascoltando Leviathan dei blacksters (ma ha ancora senso chiamarli così?) White Ward. La loro commistione tra black metal e post-rock a fortissime venature jazz intriso di nero arriva qui a un nuovo traguardo, raggiungendo forse i suoi migliori apici espressivi.
Meno caotici e crudi dei contemporanei Wiegedood ma altrettanto efficaci nel catturare orecchio e nervi di chi ascolta, gli ucraini di Odessa fanno centro con un brano (e per esteso un album) che rimescola le carte sul tavolo di un genere che dai sordi è sempre stato considerato mero rumore ma che in realtà ha seminato ettari di terreno fertile che continuerà – si spera – a regalare frutti deviati e malsanamente attraenti come questo.