È andato tutto bene. Ma non benissimo.
A chi sbraita che ormai i pandemic album dovrebbero essere, se non proprio vietati per legge, quantomeno considerati passé e relegati allo status di feticismi per inguaribili nostalgici catastrofisti, non srotolategli sul grugno gli ultimi numeri dei contagi da COVID: sarebbe troppo fuori moda. Tirategli dietro Sharon Van Etten.
We’ve Been Going About This All Wrong, già dal titolo ci mette meno di dieci parole a riassumere la questione con la drammatica infallibilità del senno di poi. D’altra parte la cara Sharon non è nuova a tentativi del genere: trapanare la sabbia arsa della sua intima resilienza fino a scovare un rivolo d’acqua a millemila metri di profondità, che sappia, non dico risolvere, ma almeno dare un attimo di sollievo collettivo alle labbra screpolate di chi ha avuto il buon gusto di premere PLAY. Del resto, non ha fatto altro dall’inizio della sua carriera, in maniera magistrale oltretutto. Le sue canzoni sanno di trucchi per l’autoconservazione anche quando mettono in dubbio perfino lei stessa, eppure celebrarla per la sua credibilità nel fare musica intensamente personale sarebbe guardare il dito mentre il dito indica stocazzo. “Musica intensamente personale”, dai. Chiunque vive il mestiere con un minimo di ritegno ne è capace. La differenza è altrove, ed è meno sottile di quello che le parole riescano a dire. Sharon Van Etten riesce a fare musica intensamente personale per chi l’ascolta. Sa trovare la voce della tua vita interiore, piuttosto che limitarsi a sceglierne una per la propria. E, come ogni splendida secchioncella che non guarda in faccia a nessuno, non poteva certo lasciarsi sfuggire il virus più contagioso della storia della microbiologia per dar sfoggio di tutta la sua arte, in questo senso.
Lo so, sembra melensa, messa così. E pure un po’ paracula. Ma non aspettatevi un tragico tripudio di chitarre acustiche, lamenti di pianoforte e vocine flebili di rassegnazione. Anzi, prendete questa Headspace come eccezione che se ne sbatte altamente di confermare o meno qualsiasi (presunta) regola. Un anti-doomscrolling anthem che fa dell’urgenza (innanzitutto sonora) il suo vessillo e suona come se i Berlin e i Sisters of Mercy si fossero ritrovati in un hub vaccinale per scrivere una lentissima power ballad semi-industrial. Una richiesta di attenzione in un’epoca in cui dell’attenzione stessa la soglia è ai minimi storici, che si gonfia ricorsivamente su una linea di basso che a sua volta – a intervalli regolari, come un’onda – va a schiantarsi su un muro di gomma di synth cigolanti come le macine di un mulino con l’artrite, mentre lei ripete ad libitum «baby don’t turn your back to me», cambiando di volta in volta l’enfasi e variando leggermente la melodia, fino a farla diventare un mantra apocalittico.
Un vortice affascinante e terrificante allo stesso tempo, direbbe il recensore scontato. Ma così va la vita, appunto, baby. I semplici desideri si confondono fino a diventare bisogni primari, mentre l’ossessione di essere desiderati si accontenta di vestire i panni della speranza di risultare, anche solo per un attimo, visibili a chi ci sta intorno.
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