Graditi ritorni, non per modo di dire.
Mathangi “Maya” Arulpragasam è il genere di artista che ti fa riflettere anche sulla percezione del tempo all’epoca di Internet 2.0. Nella piena e conclamata maturità, infatti, la ragazza che sfornava il capolavoro al secondo tentativo con il magnifico Kala taceva discograficamente da un po’ e non sapremmo dire quanti ne abbiano davvero notato l’assenza. Eppure, se parliamo di album, trattasi pur sempre di sei anni. Un periodo lungo il quale M.I.A. non è comunque rimasta con le mani in mano – tra concerti, brani sparsi e un documentario – e forse è anche per questo che al ritorno in grande stile fioccano le novità.
Tanto per cominciare: un contratto con la Island e un LP, MATA, annunciato lo scorso novembre e dalla data di pubblicazione ancora ignota. Ma c’è dell’altro, ed è un aspetto non di poco conto per chi – nella sua contaminazione tra hip hop, reggae, elettronica e ricerca etnica – fonde autobiografia e coscienza sociale, pop e prese di posizione scomode. Questo altro è la conversione al cristianesimo dichiarata in un’intervista da parte di una hindu figlia di attivisti tamil. Passo che la diretta interessata difende a spada tratta perché le ha ovviamente cambiato la vita e certo non facciamo fatica a crederlo.
↦ Leggi anche:
Travis Scott (feat. Young Thug & M.I.A.): Franchise
Affari suoi, in ogni caso. A noi interessano eventuali ricadute sul piano creativo (ricordatevi cosa combinò il “rinato” Bob Dylan) ed ecco un assaggio del nuovo corso. Classicità d’autrice che, con la produzione di Rex Kudo e T-Minus, srotola un’autostrada da Londra sul golfo del Bengala passando da Kingston e avvolge la – chissà quanto ex – bad girl in appiccicose tinte pastello. Al di là delle questioni di fede, un bel sentire.