La barbarie post-pop comincia fuori casa.
Alla faccia del senso di sospensione post-pandemica, il marasma di uscite discografiche continua imperterrito, obbligandoci a scelte drastiche e a una faticosa ricerca di ciambelle che, oltre al buco, abbiano anche un sapore il più possibile insolito. Tale è il caso di Katie Alice Greer, fresca di esordio con l’album Barbarism dopo aver inanellato un terzetto di EP tra 2012 e 2019. Passo compiuto in perfetta solitudine, tramite un processo compositivo che la diretta interessata descrive come qualcosa di simile alla creazione di un intero mondo.
Un mondo che diremmo inquietante e scuro, però con una fiammella di luce che trema, laggiù, in fondo al tunnel da attraversare. Il mondo in cui viviamo, a farla breve: quello dove il domani è un’ipotesi, dove ci sfugge il senso di tutto e ci troviamo sbatacchiati dagli eventi. Dove ci sembra di non poter far nulla se non creare delle oasi di speranza che, in qualche modo, possano proteggerci. In fondo è questo il senso di Captivated, filastrocca gothic pop che ipotizza la giovane Björk dedita all’archeologia industriale.
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Giocata su trame di artigianato mid-fi indecise tra cristallo e caligine, poggia su un senso di attesa che non si risolve e ti inchioda a sé. Perfetta scultura ipnotica e viva che racconta un talento con le idee chiare, capace di collagismi che mescolano decine di riferimenti – ad esempio, una sorta di Kate Bush del terzo millennio – fino a raggiungere un proprio carattere. Non la “solita” cantautrice, insomma.