In un bar, sotto le palme finte.
Entri nel negozio, saluti educatamente e, come un bambino che gode di credito illimitato, riempi un enorme sacchetto con i dolciumi che ti piacciono di più. Fuor di metafora, l’assemblaggio tra generi disparati è il filone del suono indie anni Zero che ha offerto cose assai interessanti. Una vena che sembra lungi dall’esaurirsi e, anzi, diremmo più viva che mai: basta dare un’ascoltata in giro per rendersene conto, anche se, come al solito, i risultati migliori stanno dove il talento tiene insieme con naturalezza spunti, modelli e assortite stramberie. Perché è solo così che eviti di scivolare nell’esercizio di stile o in un’eccentricità fine a se stessa.
Rischi che non corrono Dylan Hadley e Cole Berliner, pazzoidi radunati sotto la sigla Kamikaze Palm Tree, pronti alla prova del secondo album. Fuori su Drag City il prossimo agosto e intitolato Mint Chip, il disco segue di un triennio l’esordio Good Boy trafficando con di tutto un po’: storture e pop, nostalgia e ambiguità, temi aquatici e un gustoso, fanciullesco surrealismo. Il tipo di ingredienti che, in epoche discograficamente meno prolifiche e artisticamente meno dispersive, avremmo definito cult.
Nell’attesa ribadiamo quella descrizione di massima, considerandola un complimento per il suono trasversale di chi, nei novantanove secondi di In the Sand, conduce un misto di Swell Maps e Family Fodder nella scuderia K Records tra strutture e chitarre che sgusciano e schizzano come biglie sul pavimento, ritmica scarna però solida, fondali sottomarini per una melodia così sghemba – coretti da sirena inclusi – che si fissa subito in testa.
Produce Tim Presley dei White Fence e – stravaganza per stravaganza – tutto quadra eccome.