Come guardare in un caleidoscopio mentre si fa bungee jumping.
Mescolare gli ingredienti è quasi sempre una cosa buona. Lo dicono tutti i barman quando ti fanno un cocktail e passano mezz’ora a shakerarlo (anche se il dubbio che sia solo un modo per alzare il prezzo di un paio di euro persiste), lo diceva anche un certo John Zorn, uno che non ha mai avuto paura di prendere pezzi dei generi più disparati e metterli insieme per vedere che succedeva.
È un po’ l’impressione che si ha ascoltando il misterioso progetto Herath (sappiamo che è roba che arriva da New Jersey, poco altro). Nor’easter è una suite attualmente (o perpetuamente?) incompiuta che apparentemente continuerà a evolversi, pezzo dopo pezzo, come un domino senza limiti di tessere.
La sezione in esame, la numero cinque, è un vero e proprio delirio sperimentale, poco adatto a orecchie non avvezze, che butta nel tritacarne industrial rock, free jazz, metal e progressive, per un risultato che lascia storditi ma allo stesso tempo bramosi di averne ancora. È la colonna sonora di un film assurdo, motivo per cui la visione del folle videoclip che accompagna il pezzo è d’obbligo. Un’anomalia audiovisiva terribilmente disturbante e affascinante, qualcosa che manderebbe in brodo di giuggiole il Mike Patton più schizoide e che – come le serie TV (siamo nel 2022 d’altra parte, no?) – carica l’attesa per il prossimo episodio.
Finisse anche qua, resterebbe un piccolo gioiello marcio e letale, tinteggiato all’interno di un invitante rosso fiammante. Solo per i duri di stomaco.