Neopsichedelia di ieri, di oggi, di domani.
Per rendere grande una band non bastano la ragione sociale ammiccante e un aspetto dimesso ma cool. Servono suono e canzoni, perché come direbbe il Maestro Yoda la questione sta nel fare o non fare. Tutto il resto, aggiungiamo noi, conta zero. Ed è stato proprio focalizzandosi sull’unione tra sonorità e scrittura che i Black Angels hanno costruito una carriera luminosa: da mezzo secolo di espansioni della mente hanno prelevato i materiali che servivano per ricombinarli in forme inedite e innestarle su una penna di rara solidità.
Parlano solo se ritengono di avere qualcosa di significativo da dire, i texani, e se questo comporta mettere cinque anni tra un LP e l’altro, benissimo così. Sintesi e misura sono ciò che mantiene coeso il loro stile policromo, al cui centro pulsa una musica tanto più pura quanto più mescola spunti codificati in un’originalità dall’aria familiare. Non senza sarcasmo, i diretti interessati parlano di modern vintage sound: definizione acuta, se pensi a un’evoluzione dove i modelli sono considerati un punto di partenza e lo sviluppo è, oltre che efficace, coerente.
In un articolato gioco di specchi, El Jardín srotola un vigoroso, inquieto e moderno acid-pop dove Roky Erickson e Roger McGuinn sono sedotti dal minimalismo di Joy Division, Echo & the Bunnymen e Sound. Dove la malinconia è un non detto che sgomita per venire a galla e ci riesce. Dove il tempo è relativo e distorto. Dove un universo parallelo ti imprigiona a sé e di liberarti non vuoi saperne.