Gioie quotidiane, nemmeno così piccole.
Nell’ultimo biennio di ore buie ne abbiamo passate infinite, e all’orizzonte pare non esserci una gran luce che possa spazzarle via. Però la speranza resta una delle ciambelle di salvataggio cui attaccarsi saldamente nel brutto mezzo di una tempesta, quando stai cercando di reagire nel modo più sicuro che conosci. Da cantautrici, ci si siede al pianoforte e, al riparo della penombra, si scrive allo scopo di riempire un tempo creduto vuoto. Eppure parole e musica erano lì a riempirlo, aspettando di essere raccolte e intrecciate.
Per questo, quando credevi di scandagliare in profondità soltanto per te, ti sei resa conto che stavi sbagliando. Ma Brian Eno insegna che l’errore va onorato come un’intenzione nascosta e così è stato per Beth Orton, che in autunno tornerà dopo una pausa di sei anni con un album dal titolo splendido, Weather Alive. Nella title track, l’artista inglese si annuncia coraggiosamente e in punta di piedi, porgendo un folk ambientale che ripensa l’introspezione di Nick Drake e la visionarietà di John Martyn alla luce del minimalismo appartenuto a Mark Hollis.
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Ne deriva un esteso saggio di modernità classica, nel quale la melodia gira in tondo e, invece di stancare e sembrare irrisolta, avvolge l’ascoltatore dentro un tepore da piccole – ma, in fondo, grandi – gioie quotidiane. Come quando rientri in casa dopo una passeggiata mattutina sulla spiaggia, vorresti che l’aerea pacatezza di Weather Alive non finisse mai. In tempi come questi, un balsamo per l’anima.