I frantumi del sogno americano.
Ruvida e scarna, la poesia di Thomas Dollbaum si confronta principalmente con quel che (non) resta del ben noto American dream. Venuto su in Florida e trasferitosi a New Orleans per ottenere un master in Letteratura, campare costruendo case e – nel tempo che gli avanzava – scrivere canzoni, durante la pandemia il ragazzo ha messo su nastro una manciata di brani con l’amico polistrumentista Matthew Seferian.
Convinto dell’esito, in tempi relativamente più quieti ha convocato altri compagni di avventure in un hotel della Big Easy per completare Wellswood, un album che racchiude otto ritratti di America ai margini, di vite che sbandano, di gente che si arrangia come può con il difficile mestiere di stare al mondo. In un “non luogo” di provincia, mescolando Raymond Carver e Hubert Selby Jr., Richard Buckner e David Berman, l’oppiaceo taglio indie roots delle pagine che Thomas affida al vento persuade eccome: la sua voce profonda, allo stesso tempo sommessa e sepolta nel mix, osserva le esistenze altrui “da vicino” con discrezione e soprattutto partecipazione.
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Il fascino di questo songwriter umanista moderno risiede – oltre che nell’austera bellezza della musica – anche nel contrasto risolto tra la delicatezza dei suoni e la scabrosità di ciò che racconta. È un mondo grigio e disperato quello che tratteggia, però lo spiraglio di speranza rimane sempre aperto. Parla chiaro in tal senso Work Hard, con le immagini sfocate del video a suggerire ricordi dolci e probabilmente perduti, il tono improntato a un’avvolgente colloquialità, la strumentazione rigorosa eppure attenta ai dettagli, una penna già matura. Quasi non ci credi di trovarti di fronte a un esordiente. Benvenuto, Thomas.