Amore tossico, non avrai il mio scalpo.
In giro da ormai quasi dieci anni, Sharon Kovacs rimane un fenomeno enigmatico. Un tempo chanteuse con la testa rasata a zero come una Britney Spears in rehab che ha sempre nascosto sotto la sua felpa dal cappuccio peloso l’ugola di una leggenda del soul, si presenta qui con un’improbabile criniera bionda – che a un’analisi più approfondita potrebbe rivelarsi una parrucca – abbinata a un cappellaccio a tesa larga, ricoperto da un velo che gli inguaribili romantici direbbero da sposa, mentre i più pratici da apicoltore.
Un EP, due album, una manciata di singoli subito rivelatisi hit europee. Milioni di visualizzazioni su YouTube, un contratto da modella con Viva Paris, qualche award, comparsate sui palchi dei maggiori festival europei e un tour di supporto a Robbie Williams. Sempre sull’orlo di diventare una superstar sensuale a livello planetario, eppure costantemente un passo lontana dall’ultimo salto sul trampolino verso lo stardom, al punto che ancora oggi qualcuno la confonde con il quasi omonimo calciatore croato.
Peccato, perché il saliscendi emozionale di confessioni circa relazioni (auto)abusive a tema edonismo e dipendenza con cui negli anni ha condito le sue piccole perle da jukebox di un night club avrebbe meritato di più. Billie Holiday, Nina Simone, Shirley Bassey e forse anche Beth Gibbons siamo sicuri sarebbero d’accordo, al riguardo.
Bang Bang è un delizioso tango noir che suonerebbe perfetto come colonna sonora di uno 007 diretto da Tarantino. La musica che esce dall’autoradio di una vecchia Camaro di seconda mano, mentre, al volante, un James Bond disagiato si appresta ad accostare nel cortile polveroso di un motel da due lire al confine tra l’America più profonda e il deserto messicano. Nel posto accanto c’è parcheggiato un mulo pulcioso, legato a un carretto con sopra l’incrocio tra un frigobar e condizionatore portatile. Nella stanza al primo piano lo aspetta quello che sembra il set di un photoshoot di Playboy low budget: lo spettro di un letto a baldacchino dalle molle sfinite e una coniglietta ammiccante ma pronta a mordere appena allunghi un dito. Perché ognuno misura il proprio Eyes Wide Shut privato nei limiti di quello che può permettersi.
D’altronde, il mito della ragazza con la pistola che per una volta ha il grilletto dalla parte del manico e l’occasione di ribaltare i ruoli previsti dalla sceneggiatura patriarcale classica sarà anche vecchio come il cucco, ma – se preso per le orecchie con convinzione di una Grace Jones bionda e la voce di una Amy Winehouse sobria che ha imparato quando l’oscurità nostalgica sia spesso una cattiva consigliera – ritorna convincente, non perde un grammo di fascino e fa sempre e comunque la sua porca, porchissima figura.