Una di quelle vignette che prima ridi e poi la capisci.
Al prossimo rivoluzionario col culo degli altri che continua a lamentarsi – borbottando ben comodo sul divano – del fatto che non ci siano più le belle canzoni di protesta di una volta, tirategli dietro i LIFE.
Quattro giovanotti di periferia inglese che – da ormai cinque anni (e a breve tre album) – continuano a prendere a schiaffi i propri coetanei su tutto il fronte della consapevolezza: politica globale e locale, impegno musicale e sociale, illusioni realizzate e irrealizzabili, emozioni ai tempi del liceo o nelle tute di una qualche working class.
L’equilibrio è precario per tutti, in particolare lassù oltre la manica, dove il vento del (non) cambiamento soffia ancora forte, in cima al picco di scogliere sull’orlo del vuoto post-Brexit. Perché sembra un secolo fa, ma era ieri, e anche se stiamo parlando di un piccolo Yorkshire (il cane o la contea non fa differenza), la regola del ben più maestoso Gattopardo (il felino o il romanzo non fa differenza) si applica comunque.
Fortuna che il punk è sempre a portata di mano quando la mano serve a dare ceffoni che siano d’ispirazione. Specialmente se – appunto – gli ingredienti base sono serviti così, sul ben noto piatto d’argento. Una nazione che si è fatta delle domande con la presunzione di sapere già le risposte. Una generazione confusa, che ha rinunciato a selezionare gli input ma sta sguazzando incosciente nell’imbarazzo della scelta degli output. Un genere musicale dato per morto ancora in culla e che – ormai alle soglie di una pensione che mai sembra arrivare – continua a sostenere con i fatti di aver ancora qualcosa da dire, qualcuno a cui parlare e qualcun altro attraverso cui parlare.
Tipo una band come questa, che pare davvero – da ormai cinque anni (a breve tre album) e alla faccia dell’ironia più nera – il ritratto della salute.
Ecco perché Big Moon Lake suona di nuovo quasi gioiosa, tanto nel suo mostrarsi graffiante con il sorriso sulle labbra, quanto nel parallelo dichiararsi devota all’efficacia della ripetizione piuttosto che all’immediatezza di un riff o un coretto immediati. Un po’ sarà per il video, che nelle intenzioni dovrebbe rappresentare un omaggio al Top of the Pops degli anni ‘80, ma pare più il trailer di un film di Guy Ritchie. Ma soprattutto perché, invece che piangere addosso a temi e tragedie di tutti i giorni (la costante paura di perdersi qualcosa, l’apatia grigia della routine, mangiare male e bere peggio e in generale desiderare sempre qualcosa di diverso dalla vita, senza avere bene chiaro cosa), prova a stuzzicarli con lo sguardo del marpione, finendo per analizzarli attraverso quel filtro antipatico (perché insensibile nella sua amara esattezza) chiamato senno di poi.
Il responso? È presto detto e può essere riassunto in poche parole: la soluzione ce l’abbiamo davanti agli occhi, giusto fuori dalla porta, ed è meno peggio di quello che sembra(va). Qualunque sia il fuori dalla porta in cui siamo cresciuti, qualunque sia quello che ci troviamo di fronte al di là dello zerbino. Anche fosse – dico un nome a caso – un posto come Hull.
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