Listen to them. Children of the night. What music they make.
La magia della sorpresa. Quella scintilla che illumina improvvisamente lo scorrere monotono del quotidiano. «Un lampo di giovinezza che guizza fuori dal buio». Come ritrovarsi a caso e all’improvviso un pezzo nuovo (non un fondo di magazzino, proprio nuovo di pacca) dei Bauhaus. E il timore nell’avvicinarsi all’ascolto, perché troppo aperta è ancora la ferita di quattordici anni fa, quando Go Away White si rivelò una rentrée appena sufficiente con un moniker troppo pesante da portare sulle proprie spalle. Ma la curiosità, che è il vero motore della vita (tolta quella, l’essere umano scende ai livelli di un’ameba) fa schiacciare comunque PLAY, e improvvisamente è meraviglia.
I quattro di Northampton hanno deciso di far storcere il naso agli ascoltatori casuali e di mandare in brodo di giuggiole quelli più maniacali. Perché i Bauhaus erano molte cose: non solo darkerie ballabili in odore di Bowie (Kick in the Eye), lugubri litanie senza tempo (Hollow Hills), sferzate post-punk (In the Flat Field) o romantiche ballate decadenti (Silent Hedges). Erano, per alcuni, non meramente una rock band tutto sommato canonica nelle sue peculiarità, ma anche un ensemble che non aveva paura di sperimentare miscelando sapientemente (o incoscientemente – alla fine che differenza fa quando si tratta di arte?) dub, elettronica primitiva, sperimentazione, divertissement. Si mettevano in gioco. Ed erano sempre e comunque loro. Departure, Party of the First Part, Scopes, Of Lillies and Remains, tutti brani eccelsi che difficilmente finivano nelle compilation che contano.
Tornano oggi con questa Drink the New Wine quindi, riutilizzando una formula già sperimentata con Exquisite Corpse e sul lato B di The Passion of Lovers, ovvero il famoso gioco del cadavre exquis. Un minuto a testa e i sessanta secondi finali tutti assieme. Daniel Ash apre le danze ed è Bauhaus da tutti i pori appena parte il primo accordo di acustica 12 corde tanto semplice quanto emotivamente inarrivabile (non conta cosa suoni, ma come lo fai). Tocca poi a Kevin Haskins portarci in una spirale ipnotica figlia della dub, sognando di un mondo perfetto che resta chimera paranoide e ci guida verso la sezione calda e pregna di sapori mediorientali di David J. Chiude Peter Murphy per una ballata crepuscolare che va dritta a fondersi con lo splendidamente caotico pastiche finale in cui ognuno trova il suo spazio senza sopraffare l’altro, chiudendo un cerchio che però ha la forma dell’infinito, in un continuum che lascia molte strade aperte e fa viaggiare quanto basta con i neuroni per volerne ancora.
Qualcosa che mancava da 39 anni e che dimostra quanto i Nostri abbiano messo da parte – perlomeno come band in studio – velleità più prevedibilmente rock a favore di una ritrovata voglia di mettersi alla prova e vedere come va a finire, in quel loro modo di porsi sfacciatamente glamour e pretenziosamente efficace che nessuno ha mai saputo replicare al 100%.
Agli albori del post-punk doom&gloom, tra i capostipiti del genere, dovevi avere le palle e una certa dose di autoironia per cantare in maniera convincente di torte al pesce: ecco, quella fiamma è tornata – finalmente – a bruciare. Fosse anche l’ultima cosa che esce a nome loro, è uno splendido sigillo che cancella in un colpo quel mezzo passo falso tinto di bianco. Ora e sempre, Undead.
Bauhaus Daniel Ash Kevin Haskins Peter Murphy David J.
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