Un’altra forchettata in un bulbo oculare per un supergruppo (quasi) nostrano.
Si potrebbe gridare a gran voce: i Buñuel rappresentano una delle migliori band (semi)italiane di oggi. Anche privo del basso sferragliante del buon Capovilla, il quartetto riesce ancora una volta a presentarsi sul mercato in sordina, nella muta ombra dei non riflettori mediatici, ma continuando a suonare (benissimo) come dei redivivi Jesus Lizard.
Heavy rock, noise rock, art rock, post-hardcore: le etichette si sprecano ancora una volta e fa piacere vedere finalmente un moniker del genere sotto l’egida di un’etichetta sopraffina come la canadese Profound Lore, storicamente ricca di materiale più che succulento. Xabier Iriondo (Afterhours) alle chitarre e a tutto il resto dei rumorini, il basso di Andrea Lombardini e la batteria di Francesco Valente (Il Teatro Degli Orrori, Snare Drum Exorcism e Lume) intagliano, insieme alla voce del guru Eugene S. Robinson (Oxbow), un lavoro grezzo, pesante e riottoso.
L’amalgama dei Buñuel offre sempre ritmi spigolosi, drum beat nineinchnailsiani, chitarre blitzkrieg e ugole che suonano più come minacce che come promesse. Il nuovo Killers Like Us è la terza parte di una trilogia iniziata con A Resting Place for Strangers, e poi The Easy Way Out e si presenta come un’altra aggiunta devastante al canone della buona musica per persone cattive che è la discografia di questi ragazzacci.
Crack Shot è un pezzo rimbalzante e ad alto numero di ottani, con un ritornello ossessivamente orecchiabile. A fungere da introduzione vocale solista è Robinson che assilla il gancio, petto nudo e mutandoni rétro. Una volta che gli strumenti si uniscono, il quartetto procede a pompare la traccia sonora più diretta (e corta) del disco. Durante il bridge, un riff increspato si interrompe mentre il solito Eugene urla per l’eccitazione come se stesse facendo rafting. Quando inizia il doom outro, eccolo spruzzare urla di tormento, suonando come se stesse soffrendo per un orribile viaggio acido.
Musicisti di questo calibro, ancora una volta, offrono una prova che non sarà di certo trendy – non lo sarà mai – ma che ben regge il confronto con i locali underground in cui, vedendo Robinson scagliare i cellulari della gente in fondo alla sala e Iriondo che attiva non si sa quale pedalino infernale, ci si ricorda di cosa sia il rock’n’roll.
Bunuel Oxbow Xabier Iriondo Eugene S. Robinson Il Teatro degli Orrori