Un lunghissimo esercizio di malinconia che in venticinque anni non ha mai superato la soglia dello sconforto.
Tra i tanti corsi e ricorsi di cui è fatta la storia della musica c’è quello che vede fiorire – e ovviamente rifiorire, a intervalli regolari e a ben precise latitudini del globo terracqueo – la moda dei cosiddetti “collettivi”. Sarebbe quest’idea pseudodemocratica di comune anni Settanta applicata al concetto di band, secondo cui la band stessa non ha una vera e propria formazione fissa (al massimo un deus ex machina che si fa vedere in giro più spesso degli altri) ma esiste piuttosto nella forma di una specie di porto di mare dove la gente passa quasi per caso, dà un suo contributo spot e poi se ne va (dove gli pare e, a volte, dove non sa).
Prendiamo l’Inghilterra di metà anni Novanta e pensiamo agli UNKLE di James Lavelle o, in un certo qual modo, agli stessi Massive Attack. Se vogliamo proprio esagerare, zoomiamo ancora un po’, prendiamo la Londra del ‘96 e pensiamo agli Archive, che il significato di collettivo l’hanno portato all’estremo e quello di formazione seppellito nel tritadocumenti. Probabilmente per cause di forza maggiore, dato che a oggi risultano l’unica band di sempre a essersi sciolta sia pochi mesi prima che pochi mesi dopo il disco di debutto.
Li hanno messi nel calderone del trip hop, perché vista l’epoca e le coordinate, veniva facile così, ma da lì in poi contiamo undici album in studio (per ognuno dei quali rende fin troppo onore, in termini di minutaggio, alla “L” di LP), una colonna sonora, due compilation di remix, quattro raccolte di inediti e B-side, e sette dischi live. Soprattutto, da lì in poi contiamo diciotto membri diversi (di cui cinque cantanti) e un imbarazzante elenco di generi musicali sprecati per etichettarli: post-rock e progressive su tutti, senza farsi mancare, a un certo punto, anche una svolta orchestrale (per fortuna durata poco). Nel mezzo si son presi comunque il lusso di mandare in culo i dettami della cosiddetta radio friendliness facendo segnare una hit di 16 minuti dove prendevano appunti sullo spartito di Hey You dei Pink Floyd, ne moltiplicavano la melancholia per quattro in un crescendo devastante, per poi consegnare la tesina al prof. dicendo: «guardi come abbiamo imparato bene».
Nonostante le dimensioni del dodicesimo lavoro (per contenere tutto l’album a questo giro non basterà un CD – se preferite parlare retromaniaco diciamo che serviranno quattro vinili) o la scelta del precedente singolo (che va a toccare in scioltezza il solito quarto d’ora) li confermino cinture nere di logorrea mesta, questa We Are the Same riesce incredibilmente a dire quello che deve (riassumendo: siamo tutti diversi, ma diventiamo brutti e uguali quando ci conformiamo) in poco più di tre minuti, e qui sta la notizia.
Ci sono una bionda e una mora che guidano nella notte, le luci riflesse nelle gocce di pioggia, un incidente dietro l’angolo, l’aria fitta di mistero. Pare Mulholland Drive, solo che Laura Harring e Naomi Watts sono semplicemente sempre la stessa Holly Martin, vittima del disturbo bipolare di una make-up artist dalle idee confuse nell’eterna lotta tra il bene e il male.
La riconosci dalla voce e ritrovarla ancora qua, dopo oltre un decennio, non ti stupisce. Perché va bene tutto, ok le porte della sala di incisione sempre spalancate e le collaborazioni lunghe al massimo un chiaro di luna, ma Darius Keeler non è uno stupido e sa che quando hai la fortuna di imbatterti in una così, se te la lasci scappare, non sei più il burattinaio di un collettivo aperto, ma solo un coglione presuntuoso che ha perso i fili del suo stesso discorso. E il discorso iniziato dagli Archive – per quanto volontariamente ingarbugliato come un gomitolo – sembra ancora ben lungi dal non saper più dove andare a parare.
Archive Holly Martin UNKLE James Lavelle Massive Attack Holly Martin Darius Keeler Archive
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