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Pinegrove: Habitat
Cinque musicisti illuminati

Fotografie sonore per metabolizzare la memoria.

Di sicuro avrete anche voi quel parente che vedete circa ogni vent’anni. E sapete benissimo che ogni volta che lo incontrerete non vi riconoscerà e voi non riconoscerete lui, come se fosse una specie di tacito accordo tra le parti per enfatizzare il momento, che solitamente coincide con un matrimonio o un funerale.

Quello stesso parente di voi conserva solo l’immagine fanciullesca, non ha alcuna intenzione di stamparsi nella testa la vostra brutta faccia da adulti e di portarsela nel database della memoria a lungo termine. Si tratta di un modo per esorcizzare il tempo, fare finta che tutto resti immobile nei secoli dei secoli.

Sembrava ieri che questi talentuosi ragazzetti del New Jersey pubblicavano l’acclamato Cardinal, ma in realtà sono volati via ben cinque anni. Un lustro che si è portato dietro uno scioglimento, una reunion, tre dischi e pure una pandemia. Ma i Pinegrove sembrano proprio quegli adolescenti che nella nostra memoria resteranno per sempre così: eterni esordienti sempre sul punto di fare il botto, fermi ai tempi del liceo e indecisi se iscriversi o meno all’università.

Il problema è che quando partono i primi leggerissimi tocchi di chitarra di Habitat, sei costretto a renderti conto che il tempo non si è affatto fermato: i ragazzi stanno per laurearsi e tu sei diventato un vecchiaccio. La poetica di Evan Stephens Hall ha tutta l’aria di aver raggiunto la maturità che si addice alle grandi band, mentre l’arrangiamento è di quelli che ti accarezzano dolcemente il viso prima di strapparti il cuore a morsi.

Sette minuti di rara intensità e di melodie memorabili, con la chitarra sempre in grande spolvero e un’anima ribelle che, almeno quella, resterà sempre giovane.

Pinegrove Evan Stephens Hall 

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