Si segnalano forti radiazioni provenienti dal decadimento del post-britpop.
«The day you sign a client is the day you start losing them», diceva l’omonimo Don in una puntata di Mad Men.
Deve essere andata così tra i Mansun e il britpop: il giorno che sono riusciti ad accalappiarlo è stato l’inizio della fine, il momento in cui hanno toccato la cima della classifica il colpo di grazia. Poi c’hanno messo quattro dischi a rendersene conto, ma ognuno ha i suoi tempi di reazione e, in ogni caso, quella è un’altra storia. Una storia che si è trascinata avanti a forza di alti e bassi, sempre in bilico tra la celebrazione convinta di chi li etichettava – nella peggiore delle ipotesi – come la band più sottovalutata della scena e l’indifferenza scocciata di coloro che invece li ritenevano la banale ossessione di certi radical chic intenti a masturbarsi fuori dal coro della partita Blur vs. Oasis con l’unico obiettivo di distinguersi dalla folla, anche a costo di puntare tutto sul cavallo sbagliato.
Da quel giorno son passati venticinque anni e una pandemia di cui ancora non si vede la fine. Nel frattempo, Paul Draper si è tenuto lontano dalle luci della ribalta, anche se sotto sotto ne ha fatte di ogni: collaborazioni con gli Skunk Anansie, i Joy Formidable e Catherine Anne Davies, ma soprattutto un caleidoscopico debutto solista che di nuovo ha spaccato la nicchia tra chi l’ha visto passare immeritatamente inosservato e chi l’ha trovato ancora più confuso e fuori fuoco del peggior materiale dei Mansun stessi.
Venticinque anni sono una vita nella vita, figuriamoci nel pop’n’roll. Venti mesi chiusi in casa mascherati un delirio per noi comuni asociali, figuriamoci per chi aveva in scaletta un trionfale tuffo di ritorno in mezzo al grande pubblico. Eppure eccoci qui a commentare un nuovo pezzo di Paul Draper, la sua scrittura ancora fresca come nulla fosse successo mentre tutto succedeva, una produzione cristallina che al low-fi covidcore casalingo gli mangia la pappa in testa senza timore di infettarsi.
Omega Man fa tabula rasa elettrificata del britpop fighetto di fine anni ‘90, portandolo prima avanti e poi indietro nel tempo in una Madchester postapocalittica in cui i Kasabian non riuscirebbero più a trovare la strada di casa. Stupisce il giusto che accada con la voce e la faccia di Steven Wilson, perché se c’è una cosa che i Mansun hanno provato a fare al britpop stesso è stato proprio indicargli l’orizzonte di un certo tipo di panorami prog alla Porcunpine Tree, ben poco confinati dentro il concetto di canzonetta.
Il titolo è tratto dall’omonimo film del 1971 (a sua volta tratto da un romanzo di Richard Matheson del 1954) e per l’occasione Draper e il regista George Laycock hanno pensato bene di andare a girare il video a Pripyat, città fantasma evacuata dopo il disastro di Chernobyl e ancora sufficientemente radioattiva da garantire un opportuno distanziamento sociale. Più post-pandemia di così.
Paul Draper (feat. Steven Wilson) Paul Draper Steven Wilson Porcupine Tree Mansun
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