Un tuffo dove l’acqua è più trasparente.
Forse è per via del fatto che siamo sempre più prostrati e perennemente sull’orlo della crisi di nervi, ma ci sono giorni in cui nell’aria avverto un desiderio di musica amniotica. Di qualcosa che riscaldi e nutra lo spirito e la mente a prescindere dalle modalità e dal linguaggio sonoro cui gli artisti ricorrono e a un’attitudine rivolta a confortare o scombinare le carte. Conta il risultato, ecco.
Per questo motivo mi piace accostare l’operato di Mark Nelson – che da anni ha archiviato i Labradford ma ne conserva l’intimo messaggio – alla visionarietà di Burial, considerando il suo “minimalismo romantico” come l’altra faccia dell’inquietudine urbana dipanata in Antidawn. A dir poco perfetti, certi strumentali per chitarra («Duane Eddy suona Erik Satie» l’ha definita Brian Eno azzeccandoci in pieno) che trasportano Ry Cooder ad ambientare la colonna sonora di Paris, Texas su pianeti con meno gravità. Lo stesso per un post rock attraversato – quando ci sono – da voci lontane però sempre presenti e collocabile da qualche parte tra il twang anni ’50, il country, l’ambient.
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Materia trasparente con la quale Mark traffica da quasi venticinque anni – disco dopo disco ed elegia dopo elegia – disegnando panorami nei quali lo spazio emotivo e quello fisico si mescolano fino a confondersi. Ragionando sulla separazione cui siamo forzati, oggi ti fa sentire meno solo. Prova ne sia che su questa “nuotata in un motel dell’ovest” lieve, eterea e poggiata su una lap steel aleggi un’America metafisica che, come suggerisce l’autore, richiama Edward Hopper. Una terra di orizzonti ampi, dove il silenzio a tratti si spezza. Dove la gente si aggira in cerca di se stessa e alla fine trova qualcun altro.