Signore e signori, ecco a voi l’haunto-techno.
I Moon Wiring Club sono l’esoterico progetto dietro il quale opera Ian Hodgson. Uno cresciuto con le inquietanti serie televisive britanniche degli anni ’70 e ’80 – dalle quali estrae le voci che si aggirano nei suoi dischi – e le relative colonne sonore, con i videogiochi e la voglia di pasticciare la tecnologia in bassa fedeltà per vedere cosa salta fuori. Uno che alla sua maniera è un genio per come impasta la nostalgia di passati immaginari con l’ironia stridente e acuminata che posseggono soltanto gli inglesi.
Ian adora il BBC Radiophonic Workshop, il glamour di Biba, le illustrazioni di Arthur Rackham e i pittori vittoriani che raffiguravano fate. Non lo nasconde, e perché mai dovrebbe? Una sorta di Ray Davies moderno, è nato con lo scarto cronologico sufficiente a giustificare musiche costruite con/sui campionamenti e un trip hop disturbato che cuce assieme allucinazioni e realtà. Tutto filtrato, distorto e riflesso dalla mente e poi dallo specchio nero della televisione, il capostipite di tutti i mezzi con i quali il progresso ha scardinato la vita quotidiana.
Nondimeno, la superba Beach Decay si spinge un passo oltre l’ambient malaticcia, recapitando un’ipotesi di Daft Punk minimalisti che, gonfi di sedativi, scivolano avanti e indietro lungo una scheletrica, mesmerica e misteriosa techno aromatizzata con kraut funk e soul cibernetico e mandata al rallentatore. Qualcosa che dura otto minuti e mezzo ma non te accorgi. Anzi: vorresti non finisse mai, perché ti avvolge inesorabilmente. Un delirio che rimanda a festini in ville semiabbandonate durante i quali sono evocati fantasmi benevoli e si celebrano antichi riti. Senza che nessuno si faccia male, però. La vera malvagità, infatti, sta altrove.