Il rock classico nelle mani di uno che non sa che farsene dei consigli di Eric Clapton.
La festa è palesemente illegale ma organizzata bene. Luci soffuse, una leggera fuliggine, alcol quanto basta. Al piano di sopra suona la band: c’è assembramento, ma la gente balla sul posto rispettando rigorosamente il metro di distanza interpersonale. Giù va in scena un B-movie thailandese con tanto di coltellata alla giugulare e fiotti di sangue in abbondanza. Brett Daniels dirige l’orchestra con il solito charme a metà tra uno Hugh Grant di mezza età e un giovane Andrea Purgatori. Ammesso che Andrea Purgatori sia mai stato giovane, s’intende.
Gli Spoon hanno sempre avuto questo grande pregio: sono fighi ma non te lo fanno pesare. In fin dei conti, credo sia quello che li ha salvati e che ha fatto sì riuscissero a mantenere un livello impressionante di qualità nel corso di nove album infilati in serie, senza sbagliarne uno, con la monotonia di un campione di tiro a segno. Nonostante siano ormai venticinque anni che ce li ritroviamo regolarmente tra i maroni, sono riusciti – non si sa bene grazie a quale incantesimo – a continuare a operare in un mondo tutto loro, godendosi un’acclamazione critica pressoché unanime, ma rimanendo sempre a chilometri di prudente distanza dal pericolosissimo, reale stardom. In pratica, per tutto questo tempo, sono sempre stati nella stanza di quelli che contano ma si sono ben guardati dall’essere i protagonisti della conversazione: il che, a conti fatti, è quello che ha permesso loro di essere l’argomento, della conversazione appunto. Un po’ come Nanni Moretti in Ecce Bombo, ma senza baffi.
Dopotutto, non è un caso se sono la band con la media più alta di tutti gli anni Zero, in termini di recensioni, su Metacritic (sì, meglio di gente come Radiohead e White Stripes – buffa la matematica quando si fa opinione eh?).
Mi verrebbe da dire che è una questione di sincerità, principalmente: è quella che ti fa sviluppare solidi anticorpi contro il rischio (sempre dietro l’angolo) di sentirsi stocazzo. Non dico “pochi fronzoli e via andare”, ma fronzoli quando servono e mai caso: nessuna mitologia da costruirsi attorno né calvario da sudare per finta, nessun obiettivo nobile o idealista se non divertirsi a suonare la propria cosa in case sempre diverse. Perché pare una banalità, ma fare dischi buoni aiuta a fare buoni dischi, nel senso che dà fiducia nei propri mezzi, ci prendi gusto e ti viene sempre più facile. Anche – e soprattutto – senza grandi salti carpiati o bisogno di dimostrare niente: basta qualche piccola variazione sul tema quando ti pare ci stia bene, o un paio di virtuosismi sottobanco senza doverlo per forza sbandierare ai quattro venti.
Per esempio, qui c’è addirittura un assolo. Dura quasi dodici secondi, puzza di ZZ Top fino all’ultima nota e se non sbaglio (vado a memoria) è al massimo il terzo di tutta la loro carriera. Avevamo detto pochi fronzoli, no?
Per il resto The Hardest Cut rimette in soffitta i funkeggiamenti che avevano caratterizzato le ultime uscite e torna a pescare a piene mani nel sacco dei buoni vecchi riff veloci che ti prendono a schiaffetti sulle guance per tenerti sveglio, ma se per caso ti cala la palpebra ti stampano sulle chiappe un bel livido sculacciato e controfirmato da una di quelle palette sadomaso con su scritto in rilievo SLUT SPOON grosso così. Perché hai voglia a girare intorno al nocciolo della questione, ma alla fine la storia vera la raccontano ancora chitarre, basso e batteria. Se ti pare di averla già sentita è solo perché non sei più abituato a stare attento ai dettagli.
↦ Leggi anche:
Spoon: Do I Have to Talk You Into It