Ghiaccio secco e strobo a palla dall’ex blocco sovietico.
La scena post-punk (che a questo punto è ormai post-post-punk, pure con qualche post in più) russa continua imperterrita a riempire il sottobosco indipendente di materiale a modo suo interessante. Il mistero è parte integrante del fascino di questi progetti, che sembra non sbaglino mai davvero un colpo, come in questo caso.
La figura enigmatica che si cela dietro Fluent Panic non lascia trasparire nessun indizio, consegnando all’ascoltatore solo ciò che conta di più, ovvero la musica.
Bisogna essere onesti: qui di nuovo non c’è nulla, eppure è impossibile rimanere indifferenti di fronte a proposte simili per coloro che hanno il cuore nero pece. Gli ingredienti principali sono tutti lì (batteria robotica, linea di basso monotona e sinistra, accenni lontani di synth, voce stanca e quasi sussurrata) e stupisce quanto il livello medio di questo nuovo rinascimento di ciò che fu la darkwave sia estremamente alto.
La mancanza di originalità (neo che affligge un po’ tutte le band che si rifanno a generi ben rodati nella storia della musica tra gli anni Cinquanta fino ai Duemila) viene compensata però con una freschezza compositiva ed esecutiva che terrebbero in vita anche i dancefloor più spenti dell’ultimo club della Siberia. E chi dice di non battere il piedino su Bpar, immaginandosi mentre svita una lampadina o raccoglie un euro da terra, delle due l’una: o mente o non sa cosa significano queste cose (e quindi i Fluent Panic non può capirli fino in fondo).
Da ascoltare e ballare per ore, insomma, prima che svaniscano nuovamente nella nebbia dalla quale sono venuti.