Una brava lezione di come si saccheggiano i Beatles, con dignità.
Gli Enuff Z’Nuff nei primi anni 90 erano la band melodic-glam-hard rock in grado di risollevare l’attenzione critica, sempre più annichilita da un incessante formicaio di mini-Poison. Avevano classe, spessore e lanciavano – da una Babilonia di lustrini, danzatrici al palo e rocker in overdose nei secchi dell’immondizia – un ponte inaspettato verso i famosissimi baronetti. Anche loro poi sono finiti male come tutta la scena melodica losangeliana, sia territoriale che spiritualmente affine ma sparsa nel resto del mondo.
Dopo anni di album ignorati da tutti tranne i vecchi fan più testardi, con una media di cinque dischi negli ultimi dodici anni, ecco che ci lasciano sul tappeto davanti la porta di casa questa bomboniera squillante che sta a metà tra i sogni infranti di John Lennon e i sorrisi un po’ mesti del fantasma di George Harrison.
Chip Z’nuff (al secolo scorso e anche quello nuovo Gregory Rybarski) guida, cammina, fuma, canta in un mondo troppo lucido per i suoi calzoni melliflui e per i suoi occhiali alla Wong Fu, dietro cui un paio d’occhi spiritosi e un po’ annacquati provano a rimanere aperti. Intanto un giro melodico che forse abbiamo ascoltato già quindici volte ci pianta un paletto in mezzo al petto, proprio come fanno i veri professionisti dei cuori spezzati.