Attendere l’arrivo del sole dal fondo del pozzo di una notte complicata.
I Dawn of Solace e l’esperienza del sole. Non è così scontato parlare dell’alba in un paese, la Finlandia, dove l’astro esplode a mezzanotte, o durante il lungo e pregno inverno di tenebra. Il duo dall’aria in carenza di vitamina D si abbarbica su un giro di basso a cinque corde e una tribal-drums che rimbrotta nella noia di un’attesa angosciosa, l’arrivo di luci e colori lungo la linea del cielo, mentre i demoni della notte continuano a fare festa alle spalle taurine di Tuomas Saukkonen, mentre tamburellano ripensamenti sulla pelata di Mikko Heikkilä.
Skyline sa di epica esistenzialista anni ‘90, quando ci si deprimeva dolcemente al sicuro dagli attentati terroristici e le pandemie, dai social presenzialisti e una TV sempre più computerizzata e automica. L’esplosivo ritornello è come una granata al cuore, con il volto suicidario di Tuomas che resta impassibile di dolore, come davanti alla bara piena di vecchie memorie olezzanti.
La solenne processione di mostri sgocciola via dalla putrida vagina notturna, anfratto pubero-infernale entro cui prima o poi tutti noi ci troviamo invischiati. Estenaunti orde lupine che ci leccano i piedi impedendoci di dormire, echi di risa infantili nei recessi del lungo corridoio terrorizzante che conduce dalla camera di noi genitori alla camera di noi bambini. La fine del buio è l’abbraccio sicuro di un mondo che in fondo ci ha sempre amato.