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Wet Leg: Wet Dream
Due hostess gentilmente in disaccordo sull’ubicazione delle uscite di sicurezza

È appena nato ma ha già un nome: cottage‑core.

Il loro catalogo al momento si limita a due singoli, il primo dedicato alla sedia di nonna e l’altro (questo) che affronta un tema divisivo come certi incontrollati sbrodolamenti notturni a loro volta indotti da strusciamenti con il cuscino poco consoni a due così brave ragazze. Entrambi i video sono diretti da loro stesse, e partono dal medesimo porticato (sempre quello di nonna, probabilmente) per finire in qualche campo o boschetto poco più in là. Eppure hanno già in tasca un contratto con la Domino.

Sveglie, spiritose, sexy e dotate di un’immaginazione fresca e contagiosa, fanno dell’insinuazione il loro mantra, stando bene attente a non offrire manco per sbaglio una risposta diretta che sia una, contribuendo così a tenere viva la propria aura di band intrigante e misteriosa che – come tutti sanno – è un buon viatico per la candidatura a next big thing dell’indie rock. Qualunque cosa il termine ormai significhi. E con “termine” intendo sia “next big thing” che “indie rock”.

Tra citazioni prese a piene mani da Mean Girls e doppi sensi fin troppo poco doppi, sono evidentemente qui per portare gioia nelle vostre esistenze senza dubbio avvizzite dagli ultimi accadimenti e non a caso vengono dall’Isola di Wight, un posto dove – come ci hanno insegnato un po’ di tempo fa i Dik Dik – la gente è dal ‘68 che non smette di divertirsi, o comunque di cantare «hippi hippi pi». Un posto che – se vogliamo andare a sbirciare l’altro lato della medaglia – per quanto geograficamente vicino alla terraferma d’Albione, ne è anche separato da una tratta in traghetto universalmente riconosciuta, facendo il conto al chilometro, come la più cara del pianeta. Il che, per due adolescenti squattrinate, equivale a ritrovarsi sì isolate, ma tipo nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico.

Così Rhian Teasdale e Hester Chambers hanno fatto di necessità virtù, chiudendo nel cassetto le canzonette piagnucolanti solo pianoforte e voce con cui avevano debuttato nell’intimo della loro sala prove al femminile e – dopo aver raccattato altri tre ragazzotti della zona per metter su un gruppo vero e proprio – iniziando finalmente a prenderla sul ridere, secondo un canone tutto loro: molto DIY ma dove niente è lasciato al caso, a partire da uno studiato look da (cito) «serious hat-wearing cottage-core ladies». D’altra parte la Teasdale vanta uno stage come assistente al guardaroba dietro le quinte di un paio di video di Ed Sheeran, quindi di vestiti vintage se ne intende (true story).

E lì sta il bello, perché è gioco facile trovare frammenti e schegge di new wave americana a post-punk inglese tanto nel loro cantato quasi privo di espressione, quanto in certe spigolature aguzze che affilano lo smart pop messo in campo dalle due, ma l’ironia che tiene insieme i pezzi, quella invece è così amabilmente storta che a una prima lettura quasi spiazza.

Wet Dreams per esempio è tutta giocata su un’estetica d’abbigliamento grottesca che pianta Edward mani di forbice in una terra di nessuno tra The Handsmaid’s Tale e The Lobster, eppure non puoi fare a meno di notare il genio vagamente bobbittiano di una canzone che parla di toccarsi mentre ti mette al posto delle mani due gigantesche chele da aragosta e arrivata a nemmeno due minuti e mezzo (proprio sul più bello, quando appena avevi iniziato a prenderci gusto) si interrompe – così, de botto, senza senso – e finisce al grido di «Let’s begin!».

Wet Leg Rhian Teasdale Hester Chambers 

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